16 gennaio 1916: al fronte si muore, in città si fa festa

La triste disillusione dei soldati che tornano alle proprie case in licenza, trovando una società in cui troppi ancora si permettono lussi e divertimenti invece di accompagnare lo sforzo bellico con un contegno adeguato.
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16 gennaio 1916: al fronte si muore, in città si fa festa

In altre occasioni, già prima dell’entrata in guerra dell’Italia, si è notato che la Difesa aveva esecrato i comportamenti troppo goderecci di persone che sembravano non ricordare che l’Europa stava vivendo un terribile conflitto e che milioni di giovani vivevano in costante pericolo di vita, oltre che in situazione di estremo disagio fisico e di impoverimento economico. Ci saranno altre occasioni per parlarne.
Dell’articolo presentato questa settimana colpisce in particolare il fatto che il giornalesi faccia portavoce di «un prode soldato rientrato, saranno due mesi, nella sua città natale per breve licenza. Egli non poté trattenersi dal manifestare la sua dolorosa meraviglia nel vedere il contegno dei suoi concittadini. O non sanno, disse, quello che noi facciamo alla fronte o non hanno cuore. La voce di quell’ufficiale non è sola. Sono cento e cento le voci che esprimono stupore e dolore in argomento».
Non è possibile dire quanto ci sia di forzatura moraleggiante in questa testimonianza, nel contesto di un giornale cattolico assiduamente attento al comportamento individuale e collettivo (l’anno scorso di questi tempi si era scagliato contro i balli organizzati per soccorrere... chi soffre). Certo è che viene messo il dito su un problema realmente sentito, e con particolare forza proprio in quel primo inverno di guerra. Quello che sembra di leggere tra le righe dell’articolo della Difesa, e che sarà chiaramente esplicitato in altre occasioni, è che la guerra viene vissuta e patita in maniere differente dalle diverse categorie sociali.

In particolare i soldati contadini, a cui venivano spesso negate le licenze agricole e che trovavano le loro famiglie estenuate dai tanti lavori incombenti su donne, vecchi e bambini, vedono che invece, almeno nell’apparenza, lo stile di vita in città non è affatto cambiato.
«La collera popolare – scrive Gianluca Seramondi – si rivolse contro i benestanti, il cui tenore di vita non scese durante la guerra e che essi sembravano ostentare anche con le loro forme di assistenza e di solidarietà nei confronti delle famiglie dei richiamati. Non mancò di inveire contro i commercianti esosi che speculavano sulla scarsità di cibo e contro i ricchi “pescecani di guerra”. Attaccò lo stato le cui disposizioni per contrastare l’acquisto di merce in misura superiore al proprio bisogno e per combattere il mercato nero o l’aumento indiscriminato di prezzi presunti calmierati, erano rimaste lettera morta».

L’arrivo a casa dei soldati in licenza quindi alimentava un doppio flusso di rabbia: da un lato i soldati venivano a raccontare le reali condizioni di vita in trincea, senza i filtri della retorica e della censura; dall’altro potevano rendersi conto di quanto fosse fatto pagare ai cittadini, in modo diseguale, il costo fisico ed economico del conflitto.
La soluzione che Cadorna e i suoi generali pensarono di adottare fu semplice: restringere o perfino abolire totalmente la concessione delle licenze, come si propose, senza riuscirci del tutto, la circolare del comando supremo del 9 ottobre 1915. E siamo appena a otto mesi dall’inizio del conflitto! Negli anni successivi le condizioni, soprattutto delle famiglie contadine, andarono via via peggiorando «a causa – scrive Giovanna Procacci – della diminuzione della quantità del raccolto per mancanza di braccia, della fortissima riduzione delle rimesse degli emigranti, dei divieti di esportazione fuori della provincia di determinati prodotti e soprattutto a causa dei calmieri che annullavano i benefici dell’aumento dei prezzi e delle requisizioni».
Si andava quindi diffondendo la convinzione che i benestanti borghesi cittadini, a suo tempo interventisti, fossero ora imboscati e gaudenti.

Abbiamo scritto

Tempeste di proiettili, uragani di neve, sibilo di vento agghiacciante, laghi di fango, il rombo assordante del cannone che tuona incessante, la tensione continua dei nervi, la vita quasi sempre esposta ai pericoli, la lontananza dai propri cari e la preoccupazione di essi, la permanenza nella trincea per lunghi giorni sono necessità che ognuno associa inseparabilmente alla vita del soldato alla fronte dinanzi ad un nemico irritato e spesso poco rispettoso delle leggi di guerra.
C’è un solo italiano che possa ignorare tutto questo? Sarebbe stupido solo il supporlo. Ebbene, si dovrebbe immaginare un popolo tutto assorto nel pensiero di quanto i nostri fratelli compiono alla fronte, non per vile paura, per codarda piccineria, ma per rispetto a chi s’immola per la grandezza della patria; sotto l’amorosa preoccupazione di alleviare i disagi dei nostri fratelli combattenti non solo con largheggiare di offerte in denaro e in oggetti di vestiario, che talvolta si può fare anche per non sembrare di meno degli altri, ma con un contegno in cui tutto dica la solidarietà nell’ora della prova.
Invece per molti, per troppi non è così. Specialmente al principiare del nuovo anno abbiamo visto folla di gente abbandonarsi pazzamente ai divertimenti più sfrenati, come se il fiore della nostra gioventù non fosse impegnato in una guerra dove sono in gioco la vita sua e l’onore della patria, ma danzante una grande danza nel più fiorito dei campi del piacere, teatri pieni, osterie, bettole piene, gente che spande in balli, in crapule mentre...

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