Un Paese spaccato a metà. L'analisi di Paolo Feltrin

Una presenza elevatissima degli elettori alle urne, ma Nord e Sud votano a partire da motivazioni opposte. Gli scenari? «Siamo di fronte alla situazione più difficile della storia dell'Italia repubblicana».

Un Paese spaccato a metà. L'analisi di Paolo Feltrin

«Siamo di fronte allo scenario più difficile di tutta la storia dell’Italia repubblicana». La chiosa di Paolo Feltrin (nella foto con Roberto Ciambetti), politologo di vaglia, docente di scienze politiche all’università di Trieste e responsabile dell’Osservatorio elettorale della Regione Veneto, conferma il terremoto politico scatenato dalle elezioni di ieri.

Il professore, che evidentemente non ci terrebbe affatto a mettersi nei panni del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, indica scenari resi ipotetici da uno spoglio che alle 13 del giorno dopo il voto ancora non è completo e dal fisiologico intervallo di tempo necessario perché le tensioni della campagna elettorale evaporino ai primi caldi primaverili e lascino spazio alla razionalità.

Lo scenario

«È possibile che, dopo l’elezione dei presidenti di Camera e Senato (il 23 marzo) il Capo dello stato conferisca un mandato esplorativo a un uomo di fiducia, per capire l’aria che tira – continua Feltrin – Facile ipotizzare anche un mandato per il primo partito, il Movimento 5 stelle. Intanto il tempo passa e la situazione prende forma. Quindi, prima o poi, il presidente dovrà fare anche un tentativo con la coalizione che ha avuto il maggior numero di consensi».
Ma su questo punto il professore ha fatto capire che se il nome del premier incaricato non fosse quello di Matteo Salvini, la cosa non lo stupirebbe troppo. Meglio quindi un profilo più neutro, in grado di federare la maggioranza necessaria a governare.

E qui Feltrin estrae dal cilindro due precedenti storici che potrebbero caratterizzare anche questa legislatura numero 18.
Il primo risale al 1976 e al monocolore Andreotti, nato grazie all’astensione di un Pci allora al 33 e oltre per cento, in grado di resistere ai tre anni più bui della nostra Repubblica, segnati dal terrorismo e dalla morte di Aldo Moro.
Ma il cosidetto “governo di minoranza” si è rivisto appena cinque anni fa, quando a palazzo Chigi Napolitano ha inviato Enrico Letta forte di una maggioranza alla Camera dovuta al premio del Porcellum, e di una al Senato garantita dalla “responsabilità” di Forza Italia: il preambolo al patto del Nazareno, poi andato in frantumi proprio con l’elezione di Mattarella al Colle.

Letta da questo scorcio, quindi, Feltrin arriva anche a ipotizzare che oggi lo scenario si ripeta a parti invertite: un governo di Centrodestra, ma non di Salvini, retto da un Pd “responsabile” e “derenzizzato”. Fantapolitica? Può essere, «ma chi avrebbe scommesso sull’accordo Dc-Pci nel 1976?», si domanda in forma retorica Feltrin.

Un voto che parla

Tornando ai segnali inequivocabili che emergono dalle urne del 4 marzo, il politologo denuncia anzitutto «un evidente doppio malessere che per la prima volta nella storia spacca il Paese in due su base geografica. Al Nord il Centrodestra e in particolare la Lega rappresentano il consenso di quasi il 50 per cento degli elettori. Allo stesso modo il Movimento 5 stelle straripa al Sud. Le “tre Italie” a cui il maggioritario ci aveva abituato non esistono più. Il Paese è spaccato all’altezza della linea Gotica da una dinamica che vede una partecipazione al voto elevatissima (75 per cento, solo due punti meno di cinque anni fa), spinta però da motivazioni divergenti». 

Semplificando, si può dire che abbiamo un Sud che crede nel reddito di cittadinanza promesso dai 5 stelle, e un Nord che dice no, che vuole lavoro e meno tasse. «A fare le spese di questa tenaglia – tira le conclusioni Feltrin – è il Centrosinistra».

Sorprese in salsa veneta

Attestato che i Veneti hanno preso d’assalto le urne, nonostante le complicazioni e le lungaggini generate del nuovo bollino antifrode.
Con il 78 per cento, l’affluenza nelle sette province è stata la più alta d’Italia, anche se di poco.

Ma le sorprese non sono tutte qui, e nemmeno nel balzo in avanti di un Centrodestra che passa dal 32 per cento del 2013 all’attuale 49 per cento, con il Carroccio sovranista targato Salvini a triplicare il consenso: tutto ampiamente pronosticato.

Le sorprese stanno in un Centrosinistra che perde ovunque in Italia, ma qui tiene e perde appena un punto (dal 21 al 20 per cento): solo il Pd va male.
Ancora più rumore fa invece il dato del Movimento 5 stelle che in terra veneta non solo non fa incetta di voti, ma perde un 2,5 per cento rispetto a cinque anni fa.

La lettura di Feltrin è semplice: «Lo strapotere leghista di fatto fa da argine all’exploit a 5 stelle».
Evidente l’effetto maggioritario della legge elettorale: se il Rosatellum doveva semplificare il sistema politico italiano, la missione è più che compiuta. In Parlamento siederanno i rappresentanti di appena sei forze politiche (M5s, Lega, Pd, Fi, FdI, LeU), anche se nessun transfuga veneto del Pd, approdato alla corte di Piero Grasso, entrerà in una delle due Camere.

I risultati

Come hanno votati i veneti dunque?

Quasi uno su due ha votato Centrodestra e in particolare uno su tre Lega. Forza Italia dimezza i consensi: 10 per cento dal 18 del 2013. Fratelli d’Italia sale al 4,3 e Noi con l’Italia si ferma all’1,5 per cento.

La coalizione di Centrosinistra, come si diceva, tiene con il 20,3 per cento.
Si registra il crollo del Pd che passa dal 21,3 del 2013 al 16,6 di oggi, mentre +Europa raggiunge il 2,7 per cento e poi Insieme (0,5) e Civica e popolare (0,4).

Il Movimento 5 stelle al 23,6 per cento è quindi il secondo partito dopo la Lega, che continua la sua cavalcata dopo l’esito referendario di ottobre.

Liberi e uguali consegue un deludente 2,6 per cento. Appaiati all’1 per centro il Popolo della famiglia di Adinolfi e Casapound, allo 0,7 Italia agli italiani e Potere al popolo e a seguire Grande Nord, Partito Valore umano, 10 volte meglio e Pri-Ala.

Tradotto in seggi, partendo dal Senato, il Centrodestra fa incetta di tutti i nove seggi uninominali e si prende anche 8 dei 15 plurinominali: il totale dice che dei 24 seggi veneti al Senato, 17 vanno al Centrodestra (5 Lega, 2 FI, 1 Fdi), 3 al Centrosinistra (tutti del Pd) e 4 al M5s.

Alla Camera 35 dei 50 seggi veneti sono del Centrodestra (11 della Lega, 3 di FI, 3 di FdI), 7 sono del Centrosinistra (tutti del Pd) e 8 del Movimento 5 stelle.

I commenti
«La Lega gode di ottima salute - è il commento a caldo del presidente del Consiglio regionale veneto Roberto Ciambetti - Il Nord ci crede e ora il nostro movimento si allarga anche nel Sud del Paese con persone per bene che ora potranno essere rilanciate nei prossimi impegni elettorali per le amministrative e le regionali. L'autonomia del Veneto procederà anche grazie alla maggioranza in Parlamento: le nostre idee sono chiare e sono inserite anche nel nostro programma».

Bruno Pigozzo, vicepresidente dell'assemblea legislativa regionale del Partito democratico, si lecca le ferite: «I dirigenti nazionali del mio partito hanno la responsabilità di non aver capito che ciò che da anni succede in Veneto non era altro che un'anticipazione della situazione italiana. Un Pd disattento alle dinamiche venete deve ora riproporsi con maggiore coerenza rispetto alle attese dei cittadini» 

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