Il non profit italiano? Un’invenzione di successo, di cui molti si approfittano

Il nuovo libro di Giovanni Moro demolisce 30 anni di retorica su un settore che “non esiste nella realtà”, caratterizzato da definizioni inadeguate, dati abnormi, normativa confusa e oppressiva. E propone una nuova classificazione che sarebbe molto utile discutere.

Il non profit italiano? Un’invenzione di successo, di cui molti si approfittano

Il non profit italiano è solo una “invenzione di successo”, un “magma informe” dove convivono realtà completamente diverse tra loro, tenute insieme solo da una melassa comunicativa e da una legislazione confusa e oppressiva. E dove numerosi approfittatori sfruttano – più o meno consapevolmente – la fiducia e la simpatia di cui questo magma ancora gode.

Giovanni Moro, classe 1958, è stato tra i fondatori di Cittadinanzattiva, presiede Fondaca (un think tank sui temi della cittadinanza), si occupa di responsabilità sociale di impresa, è docente universitario e ha scritto vari libri. È insomma un protagonista appassionato e della prima ora del fenomeno di cui parla e ha sia gli strumenti che la memoria che gli consentono di “riconoscere che qualcosa come il settore non profit non esiste e che quindi occorre, dal lato della conoscenza, destrutturare questo insieme spurio”. Toni netti anche se pacati, pochi essenziali riferimenti e un linguaggio avvolgente: con il suo “Contro il non profit”, appena uscito per Laterza, Giovanni Moro demolisce trenta anni di retorica e di costruzioni prosperate attorno a un fenomeno che si vorrebbe frutto secolare dell’“eccezionalismo” italiano, ma che non è nessuna delle due cose. Un libro che mette in discussione la “concettualizzazione” stessa del non profit e che ha tutte le caratteristiche per generarla, una discussione coraggiosa su quello che molti definiscono acriticamente “il mondo dei buoni”.

È curioso, fa subito rilevare, che gran parte delle nozioni attuali sul non profit italiano si forma a Baltimora, Maryland, Usa. Da quella ricerca della Johns Hopkins University su 13 paesi, tra cui l’Italia, volta a “colmare il gap di conoscenza sulle migliaia di scuole, ospedali, ambulatori, organizzazioni di comunità, gruppi di advocacy, asili nido, organizzazioni di assistenza, case di cura, ricoveri per senza fissa dimora, agenzie di terapia familiare, gruppi ambientalisti…”. Da lì, negli anni 90, nacque anche quella Icnpo (International Classification of Nonprofit Organizations), che è adottata anche dall’Istat, in base alla quale in Italia esistono più di 300 mila organizzazioni senza fini di lucro.

È qui la prima demolizione operata da Moro, che anzitutto contesta la definizione stessa di non profit: negativa, residuale, “madre di tutti gli errori” perché non parla di quello che è, ma “di quello che non è…”. Una definizione che divide il suo campo di interesse in una quantità di aree, alcune discutibili, che si fonda poi sull’economicismo, senza considerare in alcun modo la dimensione immateriale delle attività, che considera “solo l’offerta e non la domanda”. Che è oltretutto ritagliata sul modello del welfare degli Usa, dove il ruolo dello Stato è residuale (contrariamente all’Italia) e dove il non profit è molto più importante del pubblico. E che infine dà linfa all’ideologia del “capitale sociale”, facendo diventare tutto uguale e “meritevole”. Tutto. Così un centro fitness è posto sullo stesso piano di una mensa per i poveri, un costoso ospedale gestito da un ordine religioso è uguale a un ambulatorio di medici volontari in periferia, un club di scacchi a una cooperativa sociale che impiega persone disabili.

Senza contare poi i “dati abnormi” derivanti da quelle statistiche, per le quali 300 mila organizzazioni avrebbero 900 mila addetti, quando in realtà quelle che hanno persone retribuite sono 47 mila, e dove i budget medi e il numero dei volontari (4,7 milioni, ma con poche specifiche sulle loro caratteristiche) sono di lettura ardua persino per gli addetti ai lavori, figurarsi per la comunicazione.

Nella quale comunicazione si è generato per il non profit quello che Moro chiama“effetto alone”: ovvero, la buona opinione di cui godono alcune organizzazioni ha fatto sì che si considerasse “buono” tutto il resto, e che ogni giorno 450 mila organizzazioni (per un periodo è circolata anche questa “stima”) “danno una risposta quotidiana ai bisogni sociali”, mentre in realtà lo fanno in senso proprio solo una ristretta minoranza (il volontariato ecc.). Ma questa “narrativa dei buoni sentimenti”, rileva l’autore, ha anche il suo effetto boomerang, per il quale ogni notizia di truffe, abusi, sprechi riguardante singole organizzazioni finisce per estendersi a tutto il settore. Infatti, contrariamente alle imprese, dove gli sbagli di una non si applicano a tutte le altre, per il “magma del non profit una appropriazione indebita diventa un marchio di infamia per tutti e porta con sé un giudizio globale su queste organizzazioni, proprio a causa dell’alone di benemerenza proiettato in modo indistinto sull’intero magma”.

Il riferimento ai fatti che compongono il “lato oscuro” del non profit – nel libro ne vengono individuati otto tipi e vengono definiti “eventi sentinella” che, “anche se accadono una volta soltanto, (…) sono l’indicatore che qualcosa (o molto) non funziona” – si riallaccia nel ragionamento di Moro all’altra demolizione: quella della “Babele normativa” che affligge il settore, piena di formalismo giuridico, rivolta “a ciò che sei e non a ciò che fai”, dove è nettamente prevalente una legislazione fiscale fondata “sul presupposto che il settore è popolato da evasori”; una miriade di norme fonte continua di controversie, che demotiva i volontari, fa spendere un sacco di soldi per la consulenza fiscale e, al minimo errore, può far sciogliere un’associazione anche se la sua attività è valida. Un atteggiamento, quello della pubblica amministrazione, da dr. Jekill e Mr Hide, che blandisce e opprime allo stesso tempo.

Un panorama in cui perfino una delle leggi più importanti, la 460 del 1997 sulle Onlus (organizzazioni non lucrative di utilità sociale), conosciuta come “legge Zamagni”, ha un taglio assistenzialistico e di beneficenza, è “obsoleta” e scritta “per un mondo che non c’è più”. Senza contare infine il “fallimento della legge sull’impresa sociale”, a cui fino a poco tempo fa si erano iscritte solo 350 organizzazioni.

Secondo Moro il problema del paradigma “acritico e residuale” del non profit è che “fa di ogni erba un fascio”, e che le sue leggi esasperano la “mercatizzazione” del settore, esaltando il “professionalismo”, facendo sì che “i forti siano sempre più forti” e i piccoli, che spesso si occupano di temi settoriali e difficili, diventino sempre più precari.

Attraverso la critica alla definizione stessa del non profit, dei dati, della comunicazione e delle leggi, Moro spiega insomma la genesi di un altro fenomeno già anticipato nell’introduzione. Qui, in due passaggi molto duri aveva indicato gli approfittatori di una situazione in cui “chi si spende per l’interesse generale è trattato esattamente allo stesso modo di chi si mette insieme per coltivare passioni e interessi perfettamente legittimi ma privati e di chi fa della condizione di essere non profit niente altro che un buon affare”. Di coloro cioè che hanno potuto “ergersi a rappresentanti di un universo enorme e ricco reclamando spazio, risorse e cariche politiche e amministrative; o liberarsi dalla responsabilità della gestione dei servizi pubblici abbandonandoli a se stessi o sottopagandoli; o migliorare la propria reputazione cavandosela con qualche donazione; o infine drenare risorse per definire e analizzare sempre meglio un tutto che è omogeneo quanto una stanza in cui si trovano un microscopio, un cannone, un cesto di frutta, un cavallo a dondolo e un ippopotamo”.

Che fare allora? Cambiare le leggi? Difficile in poco tempo. Aumentare i controlli? Impossibile, “e tutti lo sanno”. E allora che fare? Come cambiare quel paradigma?

Pur precisando che il suo libro intendeva solo “sollevare un problema” e che avrebbe potuto anche “finire qui”, Moro non si sottrae alla proposta. E dopo aver ribadito che “un oggetto come il non profit o terzo settore nella realtà non esiste”, e che “il fatto che nel mondo ci siano entità che non sono né statali né imprenditoriali non autorizza a tenerle tutte insieme dando ad esse un significato unitario”, suggerisce di decostruire quel “magma, identificando realtà differenti tra loro, ciascuna con caratteri specifici e una omogeneità ragionevole agli occhi del senso comune. Insomma, cose diverse e non specificazioni o casi particolari della stessa cosa”.

Spiegandole nei dettagli (su cui non ci addentreremo), l’autore offre “a puro titolo sperimentale” una possibile, e interessante, classificazione in sette aree separate: imprese; enti quasi-pubblici; organizzazioni della produzione e del lavoro; istituzioni di supporto; enti di ricerca; organizzazioni del capitale sociale; organizzazioni di attuazione costituzionale. Si sofferma sui vantaggi di fare queste distinzioni (graduare i benefici da destinare alle organizzazioni a seconda dell’attività svolta, liberarsi dall’economicismo, poter controllare meglio) e offre dei criteri per valutare l’utilità sociale di ciascuna realtà collocabile nelle sette aree, come quello di passare da un “non qualcosa” a qualcosa, da “che male c’è” a “che bene c’è”, di considerare ciò che viene fatto e non ciò che è scritto negli statuti.

Il libro, appunto, avrebbe potuto finire limitandosi alla critica, ma è proprio questa pars construens conclusiva a impreziosirlo e renderlo credibile, a farne un’opera utilissima. Difficile dire se il “non profit” all’italiana ha oggi la forza e il coraggio per mettersi in discussione, come appare sempre più necessario; ma questo libro potrebbe fornirgli un aiuto fondamentale per farlo.

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Parole chiave: fondi (16), volontariato (119), terzo settore (61), no profit (6)
Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)