Il pensiero transculturale è una Babele che fa crescere

L’emigrazione massiccia che sta investendo l’Italia è un’esperienza umana fondante, ma ci trova protagonisti inadeguati. Occorre cambiare il modo di porsi acquisendo nuovi codici. Ciò non toglie che la Babele che ne deriva, la disomogeneità delle lingue e delle culture, passaggio inevitabile del cambiamento, può diventare una ricchezza se si riesce a trasformare la complessità non in confusione ma in risorsa.

Il pensiero transculturale è una Babele che fa crescere

"Oltre Babele?" è il titolo dell’incontro che Asvegra, associazione di psicoterapeuti di orientamento psicanalitico interessati all’uso dei gruppi in ambito terapeutico, ha organizzato lo scorso sabato in fornace Carotta. Ospite principale lo psichiatra Alfredo Ancora, che coordina l’unità transculturale e familiare del dipartimento di salute mentale dell’Asl Roma B, per spiegare che cosa sono e come funzionano i “gruppi terapeutici transculturali”.

Nonostante il taglio piuttosto specialistico, da addetti ai lavori, degli interventi, sono state affrontate questioni nodali per capire e progettare il modo con cui i servizi sociosanitari (e per esteso l’intera nostra società) si pongono di fronte alla massiccia immigrazione che giunge a noi da paesi anche diversissimi tra di loro. Un fenomeno che stiamo subendo, più che gestendo, e che spesso incontra la resistenza e il rifiuto non solo da parte delle persone comuni, ma anche degli stessi operatori chiamati ad affrontarlo con strumenti inefficaci.

Eppure l’emigrazione, è stato rilevato, è un fenomeno sostanziale dell’esperienza umana, al punto che la bibbia la mette al centro della crescita del popolo eletto e lo stesso vangelo lo richiama nella fuga in Egitto. Però finché ne parliamo al passato e in lontananza, questa non evoca sentimenti precisi, mentre ora che abbiamo la “fortuna” di vivere da dentro questo processo ci scopriamo protagonisti inadeguati e impreparati. Ciò non toglie che la Babele che ne deriva, la disomogeneità delle lingue e delle culture, passaggio inevitabile del cambiamento, può diventare una ricchezza se si riesce a trasformare la complessità non in confusione ma in risorsa.

E proprio questa complessità è stata oggetto dell’attenzione di Alfredo Ancora, che ha rilevato come

«in una società sempre più multietnica sia necessario riflettere su quali strumenti di pensiero l’operatore della salute mentale del terzo millennio deve ricorrere per far fronte a un paziente che sempre più spesso si presenta ai servizi con richieste multiproblematiche».

Soggetti come i migranti, i richiedenti asilo, le donne vittime di tratta, i minori stranieri non accompagnati che appartengono a quella “patologia della transizione” con cui si avrà sempre più a che fare. Sono disagi “impastati” con elementi sociali e culturali che spesso sfuggono alla nostra conoscenza e che pure hanno una grande rilevanza sul modo in cui i soggetti reagiscono al nostro “prendersi cura”, anche il più volenteroso.

Il “pensiero transculturale”, proposto dallo psichiatra, autore di vari studi e saggi su questa materia, non si limita alla creazione di nuove categorie ma propone «un attraversamento di altri mondi e modi di conoscenza» con la possibilità di modificare lo stesso modo di porsi rispetto agli eventi e alle persone acquisendo nuovi codici, «senza la paura di smarrire quelli precedenti».

La modalità transculturale è «un atteggiamento mentale nuovo che offre la possibilità di superare la posizione culturocentrica secondo la quale ogni società pensa di essere centrale rispetto “ai resto” con cui viene in contatto». Bisogna costruire dei ponti di passaggio verso una mente multiculturale, che è la nostra, capace di porsi “al plurale”, di accettare un processo che non è solo di meticciato, ma addirittura di “creolizzazione”.

Perché gli effetti del meticciato si possono prevedere e quantificare, quelli della creolizzazione sono imprevedibili.

Non è possibile capire in anticipo quello che cambierà nei propri modi di guardare, di ragionare. Quello che si profila è un incontro “trans”culturale in cui qualcosa di noi andrà inevitabilmnte perduto, qualcosa resterà, qualcosa verrà acquistato, ma il risultato finale sarà comunque diverso dalla semplice somma e sottrazione delle parti.

Questo concetto è stato ripreso da Fiorenza Milano, psicoterapeuta esperta in adozione e affido familiare, anche in riferimento ai minori stranieri non accompagnati, che sottolinea come non esista un “beneficiario” del rapporto di accoglienza, ma entrambi “beneficino” del compito della conoscenza reciproca e dell’integrazione: un movimento di andata e ritorno in cui l’altro non è oggetto di un mio intervento, ma soggetto di un’esperienza di cambiamento che investe entrambi.

La transculturalità, secondo Fiorenza Milano, richiama all’immagine di soglia, dell’inframezzo, di quello che sta tra me e te: ci si costituisce come soggetti solo attraverso uno spazio di relazione.

Nell’esperienza quotidiana però è facile cadere in modelli di semplificazione, come accade per esempio per i minori stranieri, che arrivano da noi dopo una maturazione forzata da esperienze terribili, che in qualche caso hanno un’età anagrafica superiore a quella dichiarata e che ricevono dalla famiglia, che ha raccolto i soldi per farli partire, il mandato di restituire quanto investito su di loro. Nelle comunità di accoglienza vengono invece trattati da ragazzi, a cui magari si dà la “paghetta” utilizzando schemi tipici degli adolescenti che non corrispondono assolutamente ai loro vissuti.

Ma nella prassi gli errori di incomprensione culturale sono frequenti, come quello riportato da un’insegnante di italiano che ha zittito la classe con un “Ssst” senza sapere che per certe culture si tratta di una mancanza di educazione molto grave. Senza contare che sono le stesse culture di coloro che arrivano a essere difficilmente conciliabili, al punto che una partita di calcio può trasformarsi in una zuffa vera e propria. Le esperienze, presentate da diversi operatori, che hanno preso tutta la seconda parte dell’incontro organizzato da Asvegra, sono apparse quanto mai significative. Sono segnali di una strada ancora lunga da compiere, in cui più che costruire ponti si tratterà di attraversare guadi, bagnandosi e sporcandosi nel fango e nella fatica.

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