Impresa sociale, una sfida impossibile?

A undici anni di distanza dalla nascita di questa tipologia di imprese, che aveva allora suscitato grandi speranze, viene fatto un primo bilancio che appare poco confortante. A fine 2016 le imprese sociali registrate in Italia erano solo 1.367, a fronte di un totale di oltre 6 milioni. Occupavano 16.474 addetti, con una media di 12 addetti per impresa. Adesso il governo interviene, cercando di correggere i problemi più evidenti della normativa. Basterà?

Impresa sociale, una sfida impossibile?

Coniugare l’economia con l’interesse generale
Collegare le moderne forme di impresa con l’utilità sociale; valorizzare, all’interno dei processi produttivi, il volontariato e i lavoratori disabili. Utopia?

No, piuttosto una idea concreta di “bene comune”, un progetto coraggioso e di alto valore etico che trova realizzazione, oltre dieci anni fa, e che si può riassumere nella parola “impresa sociale”.
La storia inizia il 24 marzo 2006 quando un decreto legislativo istituisce e norma la figura di questa tipologia d’impresa che, per essere tale, deve esercitare «in via stabile e principale un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale».

Come si vede è la perfetta descrizione dell’impresa (attività economica, produzione e scambio) finalizzata però non (o non soltanto) al profitto come obiettivo primario; ma alla creazione di utilità sociale. Un tentativo concreto insomma di umanizzare l’attività economica e di dare una dimensione valoriale alla catena produttiva.

I settori d’intervento di queste aziende sono: assistenza sociale, assistenza sanitaria, educazione, istruzione e formazione, tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, valorizzazione del patrimonio culturale, turismo sociale, formazione universitaria e post-universitaria, ricerca ed erogazione di servizi culturali, formazione extra-scolastica e servizi strumentali alle imprese sociali.
L’elenco fa ben capire come si tratti di aree fondamentali per lo sviluppo delpaese e per la qualità della vita, e conferma il ruolo significativo assegnato dal legislatore a queste imprese per il raggiungimento di tali obiettivi.

A undici anni di distanza dalla nascita di questa tipologia di imprese, che aveva allora suscitato grandi speranze, viene fatto un primo bilancio che appare poco confortante.

A fine 2016 le imprese sociali registrate in Italia erano solo 1.367, a fronte di un totale di oltre 6 milioni. Occupavano 16.474 addetti, con una media di 12 addetti per impresa. Oltre un terzo risulta costituito da cooperative; il 24,3per cento sono società a responsabilità limitata; le società per azioni sono quattro; appena nove hanno un capitale sociale superiore a 250 mila euro… Se disaggreghiamo i dati per territorio, vediamo che nel Veneto vi sono 67 imprese sociali a fronte di un totale di 489 mila.

Questo significa che l’idea era sbagliata?
Che non è possibile coniugare l’impresa all’etica? Che il bene comune e l’utilità sociale non possono entrare a far parte – perché incompatibili per natura – del patrimonio intangibile ma prezioso dell’impresa?

Nulla di tutto questo. Gli economisti d’impresa hanno ben individuato le ragioni economiche e fiscali che hanno impedito alle imprese sociali di decollare, diventando attori di un’economia a misura d’uomo.
La prima riguarda il divieto di distribuzione ai soci degli utili o di parte degli stessi conseguiti. La norma precisa infatti che «è vietata la distribuzione di utili e di avanzi di gestione» e che gli stessi vanno destinati esclusivamente «allo svolgimento dell’attività statutaria o a incremento del patrimonio».
La seconda causa è dovuta alla totale assenza di agevolazioni fiscali sia per chi investe in tali imprese, sia per il carico fiscale in capo alle stesse. Questo significa che oggi un’impresa sociale (che magari impiega volontari e persone disabili) sopporta lo stesso peso fiscale di una normale azienda produttiva che opera negli altri settori.

Il governo ha ben compreso tutto questo e si appresta a procedere ad una radicale revisione della normativa sull’impresa sociale.
È stato tolto il divieto di distribuzione ai soci degli utili o degli avanzi di gestione conseguiti, seppure limitando tale distribuzione al 50 per cento del totale. Per favorire il rafforzamento del patrimonio è ora prevista la completa detassazione degli utili e degli avanzi di gestione se portati a incremento della riserva indivisibile o del capitale sociale. Robusti incentivi fiscali sono stati poi decisi in favore di chi investe nelle imprese sociali siano essi privati o altre società: detrazione del 30 per cento dell’investimento con un massimo di un milione di euro ai fini Irpef per le persone fisiche e di 1,8 milioni ai fini Ires per le imprese per anno solare.
È stata ancora prevista la possibilità per l’impresa sociale di utilizzare volontari e lavoratori svantaggiati e disabili fino al 100 per cento dei dipendenti rispetto al 50 dell’attuale normativa.
Viene allargato il campo di attività dell’impresa sociale anche ai settori degli alloggi sociali, al micro-credito, al commercio equo-solidale, all’agricoltura sociale, alla salvaguardia dell’ambiente e all’utilizzo delle risorse naturali.
Tra le altre novità vi è anche l’inclusione delle imprese sociali nel Terzo settore e la qualifica di impresa sociale estesa di diritto a cooperative sociali e loro consorzi (legge n.381/1991).

In tale direzione corre anche la recente decisione del governo di rafforzare la dote per le imprese sociali portando il fondo per la nascita e la crescita dell’economia sociale da 200 a 223 milioni di euro, di cui 200 per la concessione di finanziamenti agevolati e 23 di contributi a fondo perduto. Oltre alle imprese sociali potranno beneficiarne le cooperative sociali e loro consorzi e le società cooperative aventi la qualifica dionlus.

I tempi di attuazione della riforma dovrebbero essere abbastanza rapidi.
Lo schema di decreto legislativo passa ora all’esame delle competenti commissioni parlamentari e successivamente alla conferenza stato-regioni per il prescritto parere (da formularsi nel termine di 45 giorni) prima del varo definitivo.
A questo punto sta al mercato e alla sensibilità di tutti noi sostenere una formula produttiva che nei disastri di una finanza senza regole e di un liberismo fuori dalla storia tenta di coniugare con coraggio la dimensione sociale a quella economica-produttiva, vincendo – come ha scritto nell’enciclica Laudato sì papa Francesco –«la sfida urgente di proteggere la nostra casa comune... nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale».

Renzo Cocco

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