Con Cristian Sanavia. «La sfida più difficile? È quella fuori dal ring»

Professionista a 21 anni, Cristian Sanavia (nato nel febbraio del 1975) è stato per due volte campione europeo Ebu (European boxing union) e una volta campione del mondo Wbc (World boxing council) nella categoria dei supermedi. Da professionista ha combattuto in totale 56 incontri: 6 persi, 1 pari e 49 vittoriosi. Vive a Pontelongo.

Con Cristian Sanavia. «La sfida più difficile? È quella fuori dal ring»

«Beh, a dirla tutta non è che stia molto bene. Soprattutto fisicamente, pareva che i problemi fossero causa di un paio di vertebre un po’ “mangiate”, ma forse non è nemmeno quello, questo formicolio a una gamba, in effetti faccio fatica a star troppo in piedi, anche quando sono lì in palestra devo starci attento, prendermi delle pause, io che sono sempre stato abituato a non stare mai fermo, a correre, andare in bici, escursioni in montagna, ferrate comprese. Sì, ora collaboro con la Boxe Piovese di Gino Freo, un paio d’ore al giorno, sto un po’ dietro a professionisti come Festosi e Rigoldi che è il campione italiano dei supergallo. Poi faccio il personal trainer e tengo dei corsi per amatori, tutto serve per tirar su un po’ di soldi, è un momento così questo».

Professionista a 21 anni, Cristian Sanavia (nato nel febbraio del 1975) è stato per due volte campione europeo Ebu (European boxing union) e una volta campione del mondo Wbc (World boxing council) nella categoria dei supermedi. Da professionista ha combattuto in totale 56 incontri: 6 persi, 1 pari e 49 vittoriosi. Vive a Pontelongo.

«L’età è ed era quella che è, so bene che dovevo pur smettere, ma mi rompe aver smesso per un infortunio, è successo in palestra, come ti ho detto ancora non so bene quel che mi sono fatto, quel che ho. Sì, sarebbe stato meglio smettere perché prendevo tante botte, perché non vedevo più partire i colpi, ma così per me è peggio. E pensare quanta voglia di riscatto avevo dopo la sconfitta lì in Danimarca contro De Gale per l’Europeo. Certo che quell’incontro è capitato davvero in un momento particolare, non c’ero proprio con la testa, mi stavo separando da mia moglie: di quella sera non ricordo nemmeno il momento dell’inno, del nostro inno, quanta carica sempre mi dava».

«Se guardo indietro dico che sono stato bravo, ma potevo fare di più. In fondo sul quadrato mi accontentavo di vincere, ero insomma un pugile discreto – sì – ma se fossi stato un vero campione, non avrei mai perso certi incontri. Però sono pure arrivato al campionato del mondo e non so proprio, per come vanno le cose adesso nella nostra boxe, quanto ci vorrà perché un pugile italiano possa arrivare a tanto. E aggiungo che i miei titoli europei li ho pure vinti fuori casa, in Germania e in Corsica, non c’erano insomma giurie che mi davano una mano, no».

«Cosa mi ha dato il pugilato? Mah, penso per prima cosa un po’ di gloria e poi penso adesso alla sofferenza legata soprattutto alla sconfitta, a quel che si porta dietro anche da un punto di vista psicologico.

Se avessi avuto più testa, avrei potuto guadagnare tanto di più, però mi sono sempre andati male proprio quegli incontri che erano decisivi per arrivare al successivo, a quello con una borsa ricca. Io posso dire che al pugilato ho dato oltre 30 anni della mia vita, anzi, ancora gli sto dando, cercando di offrire ai giovani quella che è stata la mia esperienza. E lo faccio senza “segreti”, senza tenere alcuna cosa per me, senza essere geloso di quel che so. Sono insomma lì con loro, cercando di indicare una strada perché non facciano gli stessi errori che ho fatto io, anche se so bene che per migliorare gli sbagli servono, altrimenti non la vedi mai la differenza».

«L’incontro che più ricordo è quello per il campionato del mondo, dai, per forza ripenso a quello. In Germania, a Chemnitz, c’erano quindicimila persone. M’ero preparato bene e ricordo che erano pochissimi soldi e allora – ero in un ufficio, lì a Milano – prima di firmare il contratto ho chiesto di vedere almeno chi fosse questo mio avversario, se era uno che mi avrebbe riempito di botte non valeva la pena per così pochi soldi. Allora mi sono fatto dare una cassetta e l’ho studiato questo Beyer: certo era pericoloso, ma lì ho capito che ce la potevo fare, così ho firmato.

Ricordo, in tutti gli incontri, l’adrenalina in quella camminata tra spogliatoio e ring, il cuore che batteva forte, la paura pure nei confronti dell’avversario che voleva dire soprattutto rispetto e l’esserci con la testa. Le battaglie con la bilancia, la soddisfazione d’avercela fatta ancora una volta e qualche ombra di vino comunque ci scappava. Ecco, forse quel non aver più il sacrificio della bilancia è un sollievo, però mi piaceva quel mio lavoro. Ed era più facile sul ring che adesso: là fuori è guerra tutti i giorni, le bollette da pagare, non è mai finita. Prima invece era più semplice, dovevo solo prepararmi e concentrarmi, c’erano meno cose a cui pensare».

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