Enrico Pengo, il campione "dietro le quinte"

Enrico Pengo è nato a Vicenza nel maggio del 1972. È stato meccanico nelle squadre professionistiche della Zg Mobili (93-94-95), della Gewiss (96), della Batik (97), della Ballan (98-99) e della Lampre (dal 2000 al 2016); da quest’anno è con la Bahrain-Merida, formazione che con Vincenzo Nibali ha conquistato il terzo posto all’edizione n. 100 del Giro d’Italia.

Enrico Pengo, il campione "dietro le quinte"

«È stato dopo il Giro che un po’ sono riuscito a staccare, per qualche giorno non ho proprio toccato una bici, mi pare proprio sia la prima volta, non so se devo preoccuparmi… ma non so se ho proprio recuperato, soprattutto di testa intendo.
Poi si è ricominciato: prima il campionato italiano e adesso il Tour de France, poi il Giro di Polonia, poi ancora la Vuelta, solo a pensarci lo capisco che – ripeto – è proprio di testa che devo recuperare.
Tra l’altro in Polonia rientra Nibali, alla Vuelta ci va per provare a vincere e specie se le cose dovessero mettersi bene, sarà tanta tensione a farmi compagnia.

Quando sei lì vicino a un campione, sei anche tu con lui a giocarti il risultato, condividendo le scelte dei materiali, tu che a volte ti trovi a decidere per lui, per forza devi cercare di dare sempre il meglio, come si fa a rilassarsi? E poi vedi i distacchi ora in classifica, l’equilibrio che c’è, questione proprio di particolari, pure la fortuna e in tutto questo mica puoi sbagliare: quanto stress...».

Enrico Pengo è nato a Vicenza nel maggio del 1972.
È stato meccanico nelle squadre professionistiche della Zg Mobili (93-94-95), della Gewiss (96), della Batik (97), della Ballan (98-99) e della Lampre (dal 2000 al 2016); da quest’anno è con la Bahrain-Merida, formazione che con Vincenzo Nibali ha conquistato il terzo posto all’edizione n. 100 del Giro d’Italia.
Tra i meccanici pure della Nazionale, col padre Adriano ha un negozio specializzato sulla bici sulla strada che da Camisano va a Piazzola.

«È un lavoro questo in cui ci vuole per forza la passione, altrimenti non ce la fai.
Parlo sì dei meccanici, ma pure dei massaggiatori, del personale. Si lavora dalla mattina alla sera, le ore non si contano, non ci sono certo sabati e domeniche.
Ed è proprio tanto cambiato il ciclismo, tanto. Dai, come si poteva pensare anni fa che s’andasse a correre in Argentina, negli Emirati Arabi, anche in Australia?
E si è tutto specializzato, la preparazione dei materiali, le gallerie del vento, l’osteopata, il chiropratico, il cuoco eccetera. Noi al Giro s’era in 42 persone – una fabbrica praticamente – massimo una volta s’arrivava a 23-25. Meno italiani adesso nel gruppo, tutto si è globalizzato, con il mondo anglosassone (inglesi, australiani, americani) che hanno portato un approccio, come dire, più schematico, meno “umano”: è un altro lavorare e bisogna adattarsi, poco da fare.
Un ciclismo fatto di dati, di computerini, di potenziometri, di preparatori che ricevono on line i dati e “leggono” sul video lo stato di forma, non si scappa, sono i numeri a dirlo».

«Lo scorso anno ho avuto il dispiacere di lasciare dopo 17 anni una famiglia come la Lampre dei signori Galbusera e non c’erano mica dei consigli di amministrazione lì a decidere le cose. Peccato, era l’ultima squadra italiana. Ho avuto comunque la fortuna di seguire la Merida, uno dei colossi del settore, e capisco che potrà venirmi buono anche per il futuro, sono proprio una potenza loro, con in più la soddisfazione d’essere stato scelto per mettere assieme un gruppo di lavoro, sì, altri meccanici e non è poco: i corridori vanno e vengono, ma le squadre restano».

«Di Giri ne ho fatti 25, il prossimo Tour sarà il 19°, 15 Mondiali, 15 Giri di Spagna. Sì, di sogni ne ho un paio, vediamo un po’. Uno è di arrivare a farne 20 di Tour, ora ci sono vicino. Chi ci arriva viene premiato, proprio una cerimonia speciale. L’ho vista, fanno salire sul podio e anche da spettatore, l’emozione che ho provato. L’altro sogno è di andare un giorno alle Olimpiadi, ma qui è più dura, solo cinque corridori, e così i meccanici sono pochi».

«No, non me la sento e nemmeno voglio farlo “il confessore”, lì in squadra è un ruolo più dei massaggiatori quello, loro sì. Ecco, quel che posso vedere è se un atleta è messo male, se è storto in bici e un’altra questione è pure quella di saperlo dire al momento giusto. Diciamo che ero più espansivo anni fa, resto un po’ più sulle mie adesso, come detto ce ne sono altre di figure, non è più come prima, a ognuno il suo.

Ricordo che quando ho iniziato, mi è stato insegnato di fare il mio, ogni tanto ci penso: “Pengo, fa bene il tuo lavoro: quando hai fatto il tuo, hai sempre da imparare”. Così mi hanno insegnato e così vado avanti».

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