"Innamorato del ciclismo, ma di quello pulito"

Cristian Salvato è nato a Campo San Martino nell’agosto del 1971 ed è stato professionista dal 1995 al 2001, correndo via via con Refin, Team Polti e Liquigas. Specialista delle crono, prima da junior (Mosca 1989) e poi da dilettante (Oslo 1993 e Catania 1994), è stato campione del mondo di ciclismo su strada nella cronosquadre. Vive a Pieve di Soligo, ha tre figli ed è l’attuale presidente dell’Accpi, l’associazione dei corridori ciclisti professionisti italiani.

"Innamorato del ciclismo, ma di quello pulito"

«Era un po’ una passione di famiglia e poi lì a casa c’era mio fratello Mauro, lui del ’63: andava forte, era una delle stelle del periodo. Forte e solido, tutti a pronosticargli sicuro una grande carriera e poi l’ictus, a 18 anni, ricordo quanto dura sia stata a casa. Io prima invece giocavo a calcio, in porta; poi ho fatto basket e pure nuoto. È stato più avanti che ho cominciato con la bici ed è nato presto un amore profondo. Un qualcosa che c’è ancora, io proprio la amo la bicicletta, anche giusto guardarla mi piace. È stato nel secondo anno da junior, quando sono entrato nel giro della Nazionale, che ho capito che poteva essere qualcosa di più: i Mondiali in Russia nel 1989, i primi premi, i primi soldi. Però la passione c’era sempre, come no, perché è impegnativa la bicicletta, ti richiede tempo e tanta fatica: come fai ad andare avanti se è solo lavoro, se non c’è la passione?»

Cristian Salvato è nato a Campo San Martino nell’agosto del 1971ed è stato professionista dal 1995 al 2001, correndo via via con Refin, Team Polti e Liquigas. Specialista delle crono, prima da junior (Mosca 1989) e poi da dilettante (Oslo 1993 e Catania 1994), è stato campione del mondo di ciclismo su strada nella cronosquadre. Vive a Pieve di Soligo, ha tre figli ed è l’attuale presidente dell’Accpi, l’associazione dei corridori ciclisti professionisti italiani.

«Sì, ho smesso presto. Erano anni quelli in cui non mi ritrovavo proprio bene e non si può negare che la fine degli anni ’90 e l’inizio del Duemila restino una pagina molto brutta del ciclismo: non sentivo insomma di poter far parte di un mondo così (e senza mai pronunciarla la parola doping; ndr.). Ora invece penso che fare il ciclista sia proprio bello, basta stregoni in giro, basta soluzioni magiche da rincorrere, ora quel che deve fare l’atleta è giusto pensare a correre, concentrarsi su questo. Ed è una linea questa, indicata pure dal sindacato, senza star lì a pensare quel che fanno o non fanno, che so, il calcio o l’atletica (e guarda cos’è saltato fuori adesso): il cretino magari ci sarà sempre, ma noi del ciclismo siamo minimo dieci anni più avanti rispetto gli altri sport».

«Se guardo indietro, a quanto ho fatto da corridore, allora penso che sì, qualcosa in più l’avrei potuta fare, ma – si sa – è impossibile tornare indietro. Io poi quel mio rapporto difficile con la bilancia l’ho sempre avuto, se c’era da mangiare e bere non mi tiravo indietro e se proprio dovessi dare un consiglio, allora direi anch’io che le regole, il far la vita d’atleta, poco da fare, serve. No, per me smettere non è stato difficile, me l’ero programmato e ricordo che quel che mi è mancato è stato soprattutto l’andare in giro, quello sì, vita comoda quella, sempre tutto pronto».

«Col sindacato ho iniziato anni fa, è stato allora Gianni Bugno a mettere assieme un gruppo di giovani, c’erano Ferrigato, Martinello, Fornaciari. Poi quando Gianni è passato all’Associazione mondiale come vice presidente, ho fatto un gradino in su, sino ad arrivare alla presidenza qui dell’Accpi. Con i giovani penso d’aver un buon rapporto, sono sempre stato uno che sa fare gruppo, magari all’inizio di mio c’è una certa timidezza, ma poi va meglio e così mi cercano, mi chiamano. Di una cosa sono poi orgoglioso, di aver tirato dentro le donne, pur non essendo loro ancora delle professioniste. Così nel direttivo abbiamo Alessandra Cappellotto: un modo per cercare di dare loro una mano, siamo indietro qui in Italia per il femminile, anche se poi sono loro spesso a salvare la baracca per la Federazione. Poi i corsi per i neo pro, diritti e doveri, il passaporto biologico, la tassazione, la dichiarazione dei redditi, pure dei seminari sui social network, il loro uso, col traguardo di non essere solo un atleta, ma uno che dice, che sa esporsi, che possa far crescere il movimento».

«Sì, anche a questa mia età penso sempre che l’andare in bicicletta sia la cosa più bella del mondo. La libertà che ti dà, non ci sono palestre o campi su cui per forza dover stare. Vai in giro, vedi, le salite, le discese: una cosa unica. È la bici che da piccolo ti dà la prima libertà, il muoversi da solo. E pure lei ti insegna, come del resto sa sempre fare lo sport, che se vuoi ottenere qualcosa, qualsiasi sia il tuo livello, la strada è sempre quella: metodo, disciplina e passione. È così».

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