Nino Francescato sulla crisi della nazionale: «Non siamo i primi, ma così è troppo»

Quarant’anni fa faceva ammattire gli All Blacks. Ora guarda al suo mondo con tristezza: «Non possiamo farci travolgere dall’Irlanda. Bisogna rifondare il nostro sport partendo dal basso, ripensando al meccanismo delle Accademie e coinvolgendo tutti sul territorio». Nino Francescato analizza il momento dell'Italia al Sei Nazioni in corso.

Nino Francescato sulla crisi della nazionale: «Non siamo i primi, ma così è troppo»

Rino Francescato ha il rugby nel sangue. Trevigiano doc, 60 anni appena compiuti, Francescato è famoso per i mitici slalom e per le serpentine che negli anni Settanta fecero ammattire All Blacks, Australia e tutti gli avversari di Treviso e degli indimenticati Dogi, la nazionale veneta.

E L’Italia del rugby sembra aver dato qualche cenno di ripresa. A Twickenham gli azzurri si sono arresi soltanto a pochi minuti dalla fine, perdendo 36-15 dopo aver giocato alla pari con l’Inghilterra.

«Era ora, speravo in uno scatto d’orgoglio, anche se c’è ancora tanto da fare per risalire la china».

E Infatti, l’11 febbraio, nel secondo appuntamento con il Sei Nazioni, l’Italia è stata travolta dall’Irlanda, toccando uno dei punti più bassi della Nazionale e il peggiore in casa.

«Il rugby italiano non può essere questo. Dopo una sconfitta del genere ho provato tanta rabbia. L’Italia è inferiore storicamente ad avversarie come Inghilterra e Francia, ma contro Scozia, Galles e soprattutto Irlanda, ha il dovere di fare qualcosa di più, o almeno di provarci. Potessi dare una mano, lo farei di cuore anche gratuitamente, pur di vedere raddrizzata una piega che ci vede quasi sempre soccombere con scarti umilianti».

Perché secondo lei il rugby italiano sta attraversando un periodo così difficile?
«Il rugby in generale sta cambiando, sta perdendo gradualmente i connotati di sport dilettantistico. Per quanto concerne l’Italia, la Federazione non sta facendo al meglio il proprio lavoro e ciò emerge soprattutto nelle gestione dei vivai. Le Accademie del rugby, una delle quali porta il nome di mio fratello Ivan, non curano a dovere i settori giovanili, ma effettuano solo una selezione che non porta i risultati sperati. Per entrare nelle Accademie, i giovani si allontanano dal proprio tessuto sociale, perdono anni di scuola e in più, paradosso, non riescono a crescere a sufficienza neppure come giocatori».

Quale deve essere, secondo lei, la funzione delle Accademie?
«Più aperte a tutti, senza restrizioni e senza selezioni in base a peso e altezza o ad altri criteri economico-sociali. Oggi i rugbisti di prospetto sono sempre meno e lo si riscontra in campionato».

Come giudica l’attuale campionato di Eccellenza?
«Le Zebre e Treviso sono impegnate in Pro 12 e il campionato italiano ne risente, visto che i migliori giocatori sono all’estero. Calvisano, Petrarca, Viadana e Rovigo sono buone formazioni ma il torneo è sceso di livello e il pubblico medio è diminuito».

Ha un rimedio per rilanciare il rugby italiano?
«Bisogna fare come si è fatto in Argentina: ingaggiare tecnici locali e non per forza stranieri, e lavorare su una singola linea tecnica, coinvolgendo tutte le società presenti sul territorio, senza restrizioni. La Federugby deve essere più umile, ascoltando anche i consigli di chi ha calcato i campi, appagato dal piacere di giocare e di stare insieme. Il passato rugbistico non è tutto vecchio e obsoleto, c’erano giocatori e coach eccezionali, anche allora».

La speranza, comunque, è l’ultima a morire anche per Francescato: «Auguro alla Nazionale di stupirci ancora, perché il rugby italiano non sarà il migliore al mondo, ma non può essere quello a cui stiamo assistendo oggi».

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