Dopo il lavoro nulla? Ma il pensionato non è vecchio...

Purtroppo si continua a identificare l'inizio della “terza età” con la fine del lavoro. Ma oggi non è più così, perché la vita si è allungata, anche se non sempre la qualità corrisponde alle opportunità di tante persone, che soffrono, si abbattono, non sanno occupare il tempo finalmente liberato. Ecco allora necessità di rimettere al centro la persona e le sue potenzialità, a prescindere dall'età.
Inizia da qui, dal rapporto col lavoro che finisce dei sessantenni e dalla mancanza di lavoro di tanti giovani, il viaggio della Difesa tra le questioni della vita. Per capire chi siamo, quali valori innervano la nostra società, dove stiamo andando.
Il servizio completo sulla Difesa di domenica 16 ottobre.

Dopo il lavoro nulla? Ma il pensionato non è vecchio...

Qualcuno addirittura ha affisso in soggiorno un calendario e ogni giorno sbarra una data per avere sotto controllo quanto manca.
La pensione, sogno di tanti lavoratori, l’aspettativa di una vita libera da obblighi, orari, fatiche. Ma sul dopo le incertezze sono molte. Cosa succederà? Che svolgimento avranno le (lunghe) giornate liberate dal lavoro? Come sarà la vita da “vecchio”?
In proposito ci sono un dato culturale e uno genericamente demografico; per capirsi, forse è meglio partire da quest’ultimo.

Chi è l’anziano?
«Oggi – spiega Claudio Vianello, 37 anni di attività nell’ambito della psicologia, coordinatore di oltre la decina di colleghi che collaborano con l’Oic, importante e innovativa struttura di accoglienza, ben lontana dalle case di ricovero di una volta – l’età in cui genericamente possiamo dire che una persona diventa vecchia si è ulteriormente spostata in avanti. Un esempio: la maggior parte di coloro che scelgono di beneficiare dei servizi di una casa di riposo supera gli ottant’anni. L’allungamento della vita, i progressi della medicina, hanno innalzato la soglia dell’anzianità, questo almeno per quanto riguarda gli aspetti “biologici”, per il resto invece è rimasto tutto quasi come prima e questo è un problema».

Che vuol dire?
«Che siamo ancora schiavi di una serie lunghissima di luoghi comuni, riconducibili sostanzialmente a una identificazione deleteria, quella secondo la quale l’ingresso nell’anzianità corrisponde alla pensione, alla fine dell’attività lavorativa».

In fondo è comprensibile…
«Niente affatto. Oggi (ma fino a qualche tempo fa il fenomeno era ancora più vistoso) abbiamo persone che vanno in pensione a 65 anni, quando hanno ancora salute, forza, energie. Persone che hanno a disposizione almeno una quindicina d’anni di disponibilità a essere pienamente attivi. Che succede a tutti loro?».

Si riposano…
«Non è proprio così; spesso la fine dell’impegno professionale è una condanna. Lo verifichiamo continuamente: la maggior parte dei problemi dei cosiddetti anziani da pensione emerge, si manifesta proprio con l’arrivo della tanto agognata quiescenza. Il lavoratore sogna di non avere più i vincoli dettati dalla propria condizione lavorativa, ma poi, subito dopo, si accorge spesso che la sua vita è come svuotata, insignificante, inutile».

Forse perché, soprattutto dalle nostre parti, diamo troppa importanza al lavoro?
«Questo è vero, ma non giudico tale acquisizione culturale in maniera negativa. Il lavoro, almeno nella sua accezione più nobile, è un momento decisivo nell’esperienza umana: si tratta di rielaborare la realtà, di metterci del proprio, talora di esercitare un’azione creativa. Quando tutto questo viene a mancare si corre il rischio di sentirsi inutili, svuotati. A tutto ciò si devono poi aggiungere gli aspetti sociali e culturali. Attualmente la vita di una persona è legata alla sua capacità di essere utile, anzi produttiva; chi non è più tale è giudicato irrilevante, messo da parte. Uno scarto insomma, se non addirittura un peso».

Ma tanti giudicati erroneamente anziani trovano nuovi spazi di servizio nella famiglia, nella cura dei piccoli o nel volontariato.

«Giusto. Si calcola che siano 13 milioni gli italiani “anziani” che si giocano nel welfare familiare. Questo è molto importante. Perché anche i bambini beneficiano di tale situazione: l’anziano è quello che meglio di altri sa mettersi in relazione con i piccoli, se non altro per una semplicità di linguaggio. Il mondo della vecchiaia è molto simile a quelle dei bambini. Ma spesso il pensionato (che non necessariamente è anziano) non ha famiglia di riferimento, i figli sono lontani. Il volontariato è una grande valvola di sfogo, ma esige una scelta da parte dell’interessato e non tutti hanno il coraggio di compierla».

Quindi molti si perdono…
«Succede alla maggior parte. Il luogo comune è articolato con una consequenzialità ferrea: sei pensionato, quindi produttivamente inutile, dunque sei vecchio, non ti rimane che aspettare che passino gli anni. Questa è una logica falsa e sbagliata. Tra i 65 anni e gli 80 una persona ha almeno tre lustri buoni. Che cosa deve fare?».

Una domanda che praticamente non ha risposta.
«Se restiamo all’interno dei luoghi comuni e della nostra cultura è vero: non abbiamo soluzioni. Ma proviamo a immaginare di rompere questo schema e di mettere al primo posto il soggetto, la singola persona. Faccio un esempio: se un probabile pensionato sta bene, è attivo, perché non dargli la possibilità di continuare a lavorare, magari con compiti e mansioni diverse? La rigidità nell’ambito professionale è devastante! Abbiamo esempi concreti di come il lavoro sia una discriminante decisiva. Qui, nel nostro Nordest, ci sono imprenditori che non smettono mai, decidono loro quando essere considerati vecchi e “inutili”; lo stesso vale per tanti professionisti. Ma la maggior parte subisce per legge la definizione della loro anzianità».

Pensione flessibile, variabile, dunque, caso per caso?
«Questo è il nodo. Mi rendo conto che nelle politiche sociali e del lavoro la personalizzazione dell’età pensionistica, ad esempio, non sia semplice da attuare, ma non abbiamo molte altre alternative o saremo travolti dall’identificazione dell’anziano come l’inutile, lo scarto».

Il passo successivo, magari soltanto un’alternativa parziale, è quello di considerare i pensionati un risorsa. Lo fanno alcuni enti locali, ma soprattutto il vasto mondo del volontariato, come accade all’Oic dove esistono due associazioni (Vada e Agorà) che rendono attivi tanti anziani che non vivono nella casa ma si rapportano con gli ospiti o svolgono attività in proprio. Ripieghi, supplenze? Forse, in attesa che, nel sentire comune, il pensionato finisca di essere automaticamente vecchio e magari messo da parte, così “inutile” da finire per perdersi.

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