"Non vogliamo morire come animali", profughi in marcia per chiedere dignità

Sono ancora duemila i profughi ospiti degli hub di Cona e Conetta. Continua la protesta dei richiedenti asilo: «non vogliamo più tornare in “prigione” a Cona». L'altro ieri la tragica fine di un 35enne ivoriano che si recava alla marcia di protesta. E la chiesa apre le porte.

Guarda all'interno il servizio fotografico di Giorgio Boato

"Non vogliamo morire come animali", profughi in marcia per chiedere dignità

«Non vogliamo morire come animali a Cona, per questo andremo avanti. Sempre avanti».

I 150 migranti che lunedì hanno abbandonato il grande centro accoglienza veneziano non hanno alcuna intenzione di tornare indietro. Stamattina si rimetteranno in marcia per il quarto giorno: obiettivo Venezia. «Integrazione per tutti, casa per tutti, diritti per tutti, dignità per tutti, lavoro per tutti» è il cuore della loro protesta. «Vogliamo bene agli italiani», hanno ripetuto a più riprese i giovani richiedenti asilo africani. «Rispettiamo il governo italiano e siamo qui per partecipare al progresso della nostra Italia, ma non vogliamo più tornare in “prigione” a Cona».

Undici mesi dopo la morte di Sandrine Bakayoko, la giovane ivoriana trovata morta nell’hub il 2 gennaio scorso, l’atmosfera torna a infiammarsi nella ex base militare Nato trasformata in uno dei centri di accoglienza d’Italia. E purtroppo anche questa volta si registra una vittima: si tratta di Traore Salif, 35 anni, anche lui ivoriano, travolto mercoledì sera mentre stava raggiungendo la marcia in bicicletta. Il ministro dell’Interno Marco Minniti era accorso a Padova il 22 marzo, dopo che a Cona si era verificato un tentativo di stupro nei confronti di una 41enne del posto, per rassicurare i sindaci sull’imminente chiusura dei centri di Cona e della vicina Bagnoli di Sopra. Ma al momento attuale le sue promesse sono cadute nel vuoto e i migranti presenti negli hub sono ancora in totale quasi 2 mila.

Quella appena passata è stata per i migranti la seconda notte trascorsa in strutture parrocchiali. Ad aprire le porte delle comunità di Mira, Gambarare e Oriago è stato il patriarca di Venezia Francesco Moraglia, dopo l’intesa con il prefetto di Venezia Carlo Boffi: «La diocesi non si tira indietro», le sue parole. Un’apertura, quella del patriarca, che ha messo fine al lungo stallo, durato l’intero pomeriggio di ieri, quando le forze dell’ordine hanno bloccato la marcia dei migranti sull’argine del fiume Brenta in località Bojon a Campolongo Maggiore. Ore difficili in cui la tensione è andata aumentando, prima che i pullman prelevassero i giovani africani.

La notte precedente era stata invece la parrocchia padovana di Codevigo ad aprire le porte della propria chiesa ai richiedenti, intorno alle 23, mettendo a disposizione anche i bagni del centro parrocchiale.

Una situazione seguita da vicino anche dal vescovo Claudio Cipolla e dalla Caritas diocesana che ieri mattina ha distribuito tè caldo e biscotti ai richiedenti asilo in marcia: «Sapendo che i ragazzi erano di passaggio e interagendo direttamente ed esclusivamente con loro – ha spiegato il direttore don Luca Facco – abbiamo aperto la chiesa per dare un ricovero caldo e sicuro per la notte. Una volta entrati in chiesa abbiamo pregato insieme per il ragazzo che era morto durante il tragitto ed è stato un momento molto intenso».

I ragazzi si sono comportati con ordine e decoro e al risveglio hanno ripulito con estrema cura la chiesa.

«Da parte nostra – conclude don Facco – come Chiesa abbiamo sempre promosso l’accoglienza diffusa nel territorio, che è meno impattante e favorisce percorsi di integrazione. Comprendiamo la fatica e le ragioni del disagio di vivere in un hub, che dovrebbe essere di sosta temporanea e invece vede, purtroppo, tempi troppo lunghi. Le loro ragioni vanno comprese ma non strumentalizzate, si devono invece trovare percorsi virtuosi e soluzioni di accoglienza sempre più qualificata, favorendo la microaccoglienza».

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