Un volume racconta le chiese e i popoli delle Venezie nella grande guerra

Tra i frutti della rivisitazione storica suggerita dal centenario della grande guerra si collocano gli studi che hanno messo a fuoco il complesso e lacerante rapporto tra guerra e coscienza religiosa.

Un volume racconta le chiese e i popoli delle Venezie nella grande guerra

Argomento sviscerato da due interessanti iniziative promosse dalla Fondazione di storia – onlus, nuovo nome dell’Istituto per le ricerche di storia di Vicenza, e dalla fondazione Mazzolari di Bozzolo, con il coinvolgimento di altre istituzioni dell’area trentina, in cui è stata presa in esame la prospettiva della chiesa cattolica. Gli atti di quei convegni sono raccolti nel ponderoso volume Chiese e popoli delle Venezie nella Grande Guerra (Viella, pp 556, euro 48,00) a cura di Francesco Bianchi, coordinatore scientifico della fondazione vicentina, e di Giorgio Vecchio, ordinario di storia contemporanea.

Fin dal primo contributo di Bruno Bignami si ribadisce come «il clero sia stato dappertutto… perché accanto ai preti rimasti nelle loro consuete attività pastorali, molti furono chiamati alle armi, soldati o cappellani». Inquadrati soprattutto nei reparti di sanità, preti, religiosi, seminaristi, pur adottando comportamenti differenti, restarono perlopiù coerenti con la propria vocazione, vedendo nella prova militare l’occasione per avvicinarsi a «mondi fino ad allora sconosciuti» se non ostili. Emblematica l’esperienza personale di don Primo Mazzolari, al tempo interventista, prima di divenire alfiere del pacifismo cristiano ai tempi della guerra fredda.

Ma il panorama dei comportamenti del clero in armi è davvero multiforme, non potendo tacere di un’aliquota pur minima, usa magari «al piccolo cabotaggio parrocchiale o conventuale», che colse l’occasione per sfruttare qualche più grande libertà durante l’esperienza al fronte o negli ospedali territoriali. Senza però dimenticare, da contraltare, gli atti di eroismo compiuti: la mente corre subito all’eroe di passo Buole, don Annibale Carletti cappellano del 207° reggimento di fanteria Taro, che meritò la massima onorificenza militare. Oppure l’intuizione operosa di don Giovanni Minozzi, che ideò le case del soldato, gran parte delle quali impiantate proprio in terra veneta per un sano passatempo dei combattenti quando venivano a trovarsi nei paesi di retrovia.

Il rapporto fra clero e alti comandi fu tutt’altro che idilliaco. L’accusa di austriacantismo muoveva da lontano e trovò alimento nel più generale atteggiamento di diffidenza e sospetto verso le popolazioni locali. La diocesi padovana annovera uno dei casi più vistosi: le genti dei Sette Comuni patirono una sfiducia e un pregiudizio che fu duramente pagato ai tempi del profugato cui furono costrette. Questo capitolo è affrontato dal saggio di Sergio Bonato, presidente dell’Istituto di cultura cimbra di Roana. Ma già nel primo anno di guerra il clima di sospetto aveva fatto le sue vittime, tra cui i preti don Andrea Grandotto, don Francesco Salbego, don Piero Vezzaro, che subirono carcere, internamento, confino.

Nel volume trova ampio risalto la figura del presule vicentino mons. Ferdinando Rodolfi, associato all’allora parroco di Schio don Elia Dalla Costa, che diventerà vescovo della città del Santo, nell’opera di convincimento del clero perché rimanesse al suo posto, malgrado le cannonate e l’occupazione nemica. Mentre le autorità civili spesse volte si diedero alla fuga precipitosa, quelle ecclesiastiche stettero tra la popolazione, condividendone la sorte anche nel doloroso profugato. Tra coloro che accettarono di restare fino all’ultimo vanno annoverate anche le suore, nello specifico le dorotee di Valdobbiadene, a cui erano affidate le orfane e le malate di mente: costrette a trasferirsi a Vittorio, andarono incontro a esperienze terribili.

L’intervista al curatore, Francesco Bianchi

S’intitola “Venetomondo” la collana in cui s’inserisce il volume dedicato a Chiese e popoli delle Venezie nella Grande Guerra, a indicare l’intenzione programmatica di fare del Triveneto il punto di osservazione, niente affatto angusto e provinciale, da cui cogliere e valutare i cambiamenti epocali. E davvero la prima guerra mondiale segnò una svolta, non solo politica, ma anche sociale, psicologica e morale per il mondo e, ancor più, per le regioni che ne furono direttamente travolte. «I due convegni distinti confluiti nel volume – spiega Francesco Bianchi, uno dei curatori – sono stati entrambi puntati a cogliere il complesso rapporto tra le chiese delle Venezie e la guerra. Ne è scaturita la possibilità di approfondire tre temi principali. Anzitutto bisognava chiarire la posizione della chiesa e del mondo cattolico nei confronti della guerra e già qui emergono una serie di problematiche complesse perché all’interno del mondo cattolico, laico ed ecclesiastico, si trovano interventisti, neutralisti, pacifisti...».

Sono posizioni che trovavano sintesi nel magistero del papa?

«Non proprio. Le chiese nazionali sono fortemente portate a essere lealiste verso i sistemi politici dei rispettivi paesi. È un aspetto che cambierà proprio dopo la prima guerra mondiale, ma fino ad allora il clero francese parteggia per la Francia, quello tedesco per la Germania... Anche l’Italia, dove pure i conflitti con lo stato erano ancora aperti, si stava assistendo a un avvicinamento dei cattolici e si trovano posizioni molto articolate. Questo schierarsi prevale sulla fedeltà alla chiesa romana».

Eppure le prese di posizioni ufficiali del Vaticano furono chiare...

«La prima immagine è quella di una frammentazione delle coscienze e delle identità del mondo cattolico nel suo insieme, per approdare alla presa di posizione ufficiale della chiesa per voce del papa Benedetto XV con la famosa nota in cui definisce la guerra un’inutile strage. Espressione mutuata dalla corrispondenza con i vescovi veneti e con il vescovo Pellizzo in particolare. La posizione è chiara per il papa, ma non per tutto il mondo cattolico che resterà diviso fino alla fine».

Come ha vissuto il clero la lacerazione delle coscienze?

«La seconda sezione del nostro volume, indagata in modo particolare a Trento con alcuni casi esemplari di sacerdoti coinvolti nel conflitto in prima persona, nelle trincee o nelle immediate retrovie, è dedicata ai preti. L’esperienza bellica li segnò profondamente. Dietro i nomi famosi, come quello di Primo Mazzolari o Giovanni Minozzi che hanno fatto la storia, s’indaga anche sul dramma dei sacerdoti che, tornati dalla guerra, si sono trovati spaesati e minati nella loro stessa coscienza. Il problema in qualche modo fu sottovalutato dalle stesse autorità ecclesiastiche che dovevano recuperare moralmente e psicologicamente persone stravolte dalle guerre: il percorso previsto fu del tutto inadeguato rispetto alla realtà».

Il titolo del volume parla anche di popoli delle Venezie: questi ultimi come hanno vissuto la guerra?

«L’ultima parte della pubblicazione tratta il tema delle “chiese” delle Venezie e il profugato, proprio perché anche qui le posizioni sono diverse. Il profugato è uno dei grandi temi inevasi dalla storiografia della grande guerra, benché abbia coinvolto 10-16 milioni di persone in tutta Europa e quasi due milioni solo nelle Venezie. Con l’ulteriore complicazione che i profughi non fuggivano solo verso l’Italia, ma anche verso l’impero asburgico. Questo argomento non può essere relegato ai margini dei libri di storia. In questo volume gli studiosi friulani usano fonti poco utilizzate finora dagli storici, come i diari dei parroci. Mostrano come in quelle comunità costrette a sfollare l’ultimo a partire fosse sempre il parroco, per occuparsi delle famiglie e del loro benessere, spirituale e materiale. Questo si ripeterà, in altre forme, anche nella seconda guerra mondiale: non è l’autorità civile l’ultima a chiudere le porte e a esporsi in prima persona, ma è il parroco. Ed è ancora lui poi a seguire i profughi sfollati e dispersi in paesi diversi».

Il caso di Asiago è emblematico...

«L’altopiano di Asiago vede famiglie dirottate in Sud Italia; gente che a malapena parlava l’italiano o non lo parlava affatto, abituata a vivere in montagna con un certo clima, una certa alimentazione e un certa gestione della vita collettiva si trova proiettata in Puglia, in Campania, in Sicilia, in un mondo completamente diverso, con difficoltà di relazione. Uno degli sforzi dei parroci è stato quello di mantenere i legami delle comunità  frammentate e disperse o recandosi di persona di famiglia in famiglia o attraverso la corrispondenza per mantenere vivo il flusso di notizie della comunità».

Sul profugato si è detto tutto?

«Il profugato è un tema ancora aperto. Gli interventi di questo volume aprono spiragli su un modo che è ancora tutto da scoprire. La storia delle comunità disperse e sfollate è stata scritta a spizzichi e bocconi, a volte indagata più da studiosi di storia locale che da professionisti. Il quadro d’insieme completo e articolato sul profugato è ancora da scrivere, tenendo conto che si è trattato di una storia nascosta per ragioni di opportunità, perché questi sfollati che in vari casi sono accolti bene, in altri sono additati come nemici, austriacanti, respinti e ghettizzati. Gli stessi parroci, veneti, trentini e friulani, sono accusati di connivenza con il nemico».

Preti austriacanti e disfattisti. Ma erano accuse fondate?

«Va detto anzitutto che è stata verificata l’insussistenza di tali accuse. I preti non esortarono nessuno, nemmeno i loro confratelli chiamati alle armi, a non compiere il loro dovere, a scappare, a disertare. È l’arroganza e la superbia degli ufficiali italiani che accusano la chiesa di non essersi schierata apertamente a favore della guerra. Bisogna però anche considerare che gli equilibri sono precari: ci sono parroci di comunità di confine che non sono italiofone ma bilingui o tedescofone. La situazione è magmatica e complicata da un panorama culturale e storico-linguistico complesso con paesi, in Alto Adige che non erano mai stati italiani».

Ci sono poi le condanne morali...

«La guerra porta a una decadenza generale di costumi, che non riguarda solo l’esercito ma anche le popolazioni civili che vi vengono a contatto. Vengono meno quei legami di comunità e di controllo di comunità in una promiscuità che non aveva precedenti e che viene sottolineato dalle autorità ecclesiastiche. E poi ci sono le violenza e i furti, anche all’interno delle chiese e delle canoniche, da parte di entrambi gli eserciti. Le denunce dei parroci fioccano, ma si è in guerra e non si può alzare la voce per non essere accusati di disfattismo».

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