Cambia il Padre Nostro. La tentazione peggiore è quella di non farsi capire

Da "Non indurci in tentazione" a "non abbandonarci alla tentazione". Quando la nuova traduzione deve rendere comprensibile ciò che il testo originale dica davvero.

Cambia il Padre Nostro. La tentazione peggiore è quella di non farsi capire

Da domenica 3 dicembre in Francia è cambiato il Padre nostro: la nuova versione passa dal «ne nous soumets pas à la tentation» (non sottometterci alla tentazione) al «ne nous laisse pas entrer en tentation», “non lasciarci entrare in tentazione”. In Italia invece, anche se nella versione della Bibbia Cei 2008 il passo è tradotto «non abbandonarci alla tentazione», ufficialmente non cambia nulla: da dieci anni non si riesce a sostituire nella preghiera del Signore una traduzione evidentemente travisata e mantenuta per ossequio alla tradizione millenaria.

Il problema sta nel termine usato dagli evangelisti, che non riesce a esprimere – spiegano gli esperti – il senso del verbo aramaico usato da Gesù, che intenderebbe dire “non lasciar entrare” (valore permissivo) e invece fu reso in greco da un verbo poi interpretato come “non far entrare” (valore attivo o causativo): da un senso permissivo a uno attivo-causativo corre una bella differenza, soprattutto per l’immagine di Dio veicolata. Dalla Volgata in avanti si legge e recita così il Padre nostro («et ne nos inducas in tentationem»), mantenendo nei secoli una traduzione imprecisa che ha costretto a equilibrismi interpretativi chi aveva poca pratica del greco (e meno ancora dell’aramaico) e quindi non poteva attingere all’originale evangelico, da sant’Agostino a san Tommaso d’Aquino. Ecco, per esempio, quest’ultimo: «Forse Dio induce al male dal momento che ci fa dire: “non ci indurre in tentazione”?

Rispondo che si dice che Dio induce al male nel senso che lo permette, in quanto, cioè, sottrae all’uomo – a causa dei suoi molti peccati precedenti – la sua grazia, tolta la quale, egli scivola nel peccato».

A livello di significato, quindi, il “non indurci in tentazione” sta per “non lasciarci cadere in tentazione”. O anche, come scrive la traduzione della Cei: “Non abbandonarci alla tentazione”. E molti cristiani e preti da tempo hanno chiesto che si “corregga” la preghiera usualmente recitata. Speriamo che si arrivi a farlo, tanto più che ora c’è papa Francesco a dire che si dovrebbe cambiare traduzione, superando l’edizione del messale romano in lingua italiana del 1983. Lo si è fatto per la menzione di san Giuseppe nelle preghiere eucaristiche, si potrebbe farlo presto anche per la preghiera del Signore. Anche per evitare un fai-da-te liturgico che talora diventa imbarazzante…

Ho la sensazione, però, che sottesa a questo ritardo ci sia un’altra questione: il rapporto tra latino e lingue volgari o, se si preferisce, tra lingua “sacra” e lingue parlate, e il conseguente problema delle traduzioni liturgiche, con evidente diffidenza verso le lingue e culture moderne. Una questione che qualcuno ha vissuto – e tuttora combatte – come una battaglia pro o contro i dettami del Vaticano II, qui in specifico a riguardo del grande principio della comprensione dei testi liturgici da parte del popolo. Per chi se n’intende, siamo tra l’istruzione Liturgiam authenticam (2001) dove si era affermato il principio di “traduzione letterale” come garanzia della fedeltà al testo latino, e il motu proprio Magnum principium, in vigore dal 1° ottobre scorso, che consente maggior libertà di manovra alle Conferenze episcopali nazionali.

Non a caso nel frattempo ci si è confrontati decisamente anche sulle parole della consacrazione eucaristica: quando si parla del sangue versato da Cristo, il “pro multis” latino si vorrebbe portarlo al “per (i) molti” anziché “per tutti”, come viene tradotto in molte nazioni.

Non sta a me approfondire il punto, ma volentieri ribadisco che per assicurare, o almeno favorire, la partecipazione all’azione celebrativa il popolo cristiano, che è il primo “attore celebrante”, deve comprendere la preghiera liturgica: a questo serve una traduzione dinamica che renda il testo in lingua nazionale comprensibile ed esprima quanto dice l’originale latino (o anche greco: il cristianesimo non è nato latinofono). Tenendo bene a mente che il “mistero” liturgico non riguarda il non capire le parole in cui si prega, ma la profondità inesauribile del suo significato: dipende dal contenuto (sempre eccedente, è la grazia di Dio), non dal contenitore (sempre parziale, perché umano).

Copyright Difesa del popolo (Tutti i diritti riservati)