Chiese & Chiosa. L’importanza di comunicare bene in un mondo che spesso fatica ad ascoltarci

Basta la parola... ma che sia quella giusta. Se in chiesa arriva meno gente, la comunità può (e deve) comunque parlare a più persone e comunicare i suoi messaggi con ogni mezzo opportuno, senza sprecare alcuna occasione.

Chiese & Chiosa. L’importanza di comunicare bene in un mondo che spesso fatica ad ascoltarci

Nello stesso numero della Difesa dove si parlava di traduzione “imprecisa” («non c’indurre in tentazione» per «non permettere che cadiamo in tentazione») nel Padre nostro, il prof. Trentin faceva riflettere, a proposito di disposizioni anticipate per il cosiddetto “fine vita”, sulla «differenza determinante tra procurare la morte attivamente (= uccidere) e permettere passivamente che avvenga (= permettere il morire)». A parte la ricorrenza del verbo “permettere”, il confronto tra i due temi, lontanissimi tra loro, induce a riflettere sul linguaggio, sulla necessità di comunicare bene, partendo da informazioni di base e arrivando, dove occorre, a distinzioni più precise e “tecniche”.

Si potrebbe allargare il discorso alle minimali informazioni liturgico-catechistiche da non dare più per scontate, sulle feste e i gesti delle celebrazioni, per esempio; su ruoli, impegni e responsabilità delle persone; sui “fondamentali” dell’essere cristiani oggi. Vorrei attirare l’attenzione su tre aspetti: le parole, i gesti, le opportunità.

Le parole

Occorre purificare e ammodernare il linguaggio, perché sia comprensibile, rispettoso e anche aggiornato. La scuola ha eliminato, per esempio, la parola “asilo” e anche “scuola materna”: ormai si chiama “scuola dell’infanzia” quella bella realtà che tanto bene fa in paese e talvolta fa perdere qualche sonno; e “primaria” ha preso il posto di “elementare” (al plurale, di solito). Più decisamente va abrogata la “riduzione allo stato laicale” quando si parla di un prete che ha lasciato il sacerdozio: lo stato laicale, caratteristico della stragrande maggioranza dei cristiani, non è “ridotto” rispetto al sacro ministero o alla vita consacrata.

Come pure serve molta attenzione quando si entra nelle aree sensibili delle disabilità o handicap, della differenza di genere, di alcuni aspetti della privacy, della nazionalità o “razza” (termine che non mi piace proprio applicato alla stirpe umana).
Non fa bene a nessuno usare formule linguistiche desuete e sembrare culturalmente del millennio scorso; tanto meno far pensare a mancanze di rispetto verso categorie di persone o situazioni esistenziali di frontiera. Anche questo è obbedire allo stile dell’incarnazione, è vivere responsabilmente in questo mondo, oggi. Possibilmente senza farsi imprigionare dalle parole d’ordine ecclesiali: ieri il “convenire” o il grembo, oggi il profumo.

Analogamente gesti e segni

Solo un accenno alle celebrazioni liturgiche, che dovrebbero essere esemplari dello stile ecclesiale, cioè di famiglia di Dio.

A parte la sciatteria che sta male ovunque si manifesti o certe “improprietà” (bambine chierichette con veste e cotta da preti o in rosso da monsignori), colgo il disagio di più d’un fedele, per esempio, quando i ministranti s’inginocchiano di fronte al celebrante, pur vescovo, per presentargli l’incenso o altre incombenze.

Il linguaggio dei gesti non può smentire le parole: se diciamo di essere tutti figli di Dio uguali davanti a lui, lo si deve vedere anche dai segni concreti. Simile ragionamento si potrebbe fare per certo abbigliamento ecclesiastico da concilio di Trento...

Le opportunità da cogliere

Sotto l’aspetto comunicativo sono diverse e già molte se ne vedono in diocesi, soprattutto con gli strumenti digitali. Mi sorprendo positivamente – e ne ringrazio il Signore – quando vedo qualche bel video, semplice ma efficace, che circola in rete o è inviato via social; quando la preghiera viene aiutata da basi musicali e immagini appropriate; quando si chiede e si ottiene l’interattività, quindi la partecipazione, di più persone anche con semplicità di mezzi (Whatsapp e mail in testa).

Mi piacerebbe vedere più sfruttati la facciata della chiesa o gli spazi adiacenti per offrire messaggi positivi, di festa o semplicemente di comunità: nella mia memoria vado a luoghi strategici come la chiesa di Tencarola o della Sacra Famiglia, dove l’automobilista in coda non può non vedere… ma nella recente esperienza nel Salese ho apprezzato il frequente uso dello “striscione-messaggio” parrocchiale.

Se in chiesa arriva meno gente, la comunità può (e deve) comunque parlare a più persone e comunicare i suoi messaggi con ogni mezzo opportuno, senza sprecare alcuna occasione.

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