Don Milani: prima di tutto un prete

Don Roberto Ravazzolo, delegato vescovile per la pastorale universitaria e direttore del centro universitario di via Zabarella al termine dell'anno "donmilaniano". Educatore, sociologo, politico: letture riduttive per il prete di Barbiana.

Don Milani: prima di tutto un prete

L’anno donmilaniano è terminato.
Resta la consegna di quell’I Care, scritto sulla porta della canonica, a Barbiana, ripreso e commentato in tante pubblicazioni, riconsegnato alla responsabilità di chi ha raccolto l’esperienza di don Lorenzo. Don Milani ha vissuto questo slogan da prete. Ventenne, nel giugno del ’43, incontra don Raffaele Bensi. Il suo futuro padre spirituale lo liquida sbrigativamente perché chiamato al capezzale di un giovane prete, don Dario. Lorenzo si offre di accompagnarlo e al feretro di quest’ultimo dice: «Io prenderò il suo posto».

Divenne prete il 13 luglio del ’47 e quel posto effettivamente non l’ha mai abbandonato, fino al giorno della morte, nonostante le tante prove interne ed esterne.

C’è chi ha visto in lui l’educatore, il sociologo, il politico, il rivoluzionario, il contestatore. Sbagliano tutti o meglio danno tutti una lettura riduttiva. Don Lorenzo è stato anzitutto un prete che ha cercato di vivere il e per il vangelo.

Le sue battaglie per la giustizia, la verità, la responsabilità, la dignità dei poveri, trovano radice nella sua volontà di essere prete fino in fondo. Don Bensi ebbe a dire che il giovane Milani dal giorno del loro primo incontro «si ingozzò di vangelo e di Cristo; ...partì subito per l’Assoluto, senza vie di mezzo; voleva salvarsi e salvare, a ogni costo; trasparente e duro come un diamante...». Certo è stato un maestro di vita, un paladino della giustizia, un forgiatore di coscienze ma perché trionfasse la logica delle Beatitudini e del Magnificat.

«Se Gesù ha ragione allora bisognerà rovesciare tutta la nostra vita e il nostro modo di pensare – scrisse – se no non potremo entrare nel regno di Dio». Le stesse critiche da lui mosse alla chiesa e alla pastorale del tempo sono nate in gran parte dal sentirle contaminate da logiche troppo poco evangeliche.

L’icona di don Milani più diffusa vede comunque lui tra i ragazzi di Barbiana: la sua scuola! Seduti sui banchi, in piedi a camminare, in posa davanti all’obbiettivo di un visitatore, sono loro gli ultimi in mezzo ai quali vive gran parte del suo essere prete. Cosa fosse per lui la scuola è nella nota espressione: «Lasciatemi dunque il tempo di fare le cose per benino, rifacendomi cioè dalla grammatica italiana e su su nel giro di 20 anni vi riempirò di nuovo la chiesa».

Ingenuità o sapienza? Di sicuro ha radici bibliche la convinzione che la parola sia in grado di dare o restituire dignità a chi se l’è vista negare o togliere, di dare strumenti per confrontarsi col mondo e abitarlo con libertà e responsabilità.

Se questo è vero, perché perdere tempo con i ricreatori?

Come ha ben messo in evidenza la nipote Valeria, don Lorenzo fin da ragazzo in famiglia ha respirato cura per la parola e consapevolezza del suo valore. Scoperta la fede e tuffatosi nella Parola, ha impostato la sua vita di prete sempre alla ricerca della relazione tra parola e vita, che rende vera la comunicazione e credibile chi la pratica, nell’educazione nella religione in politica ecc. Non sempre è stato capito. Mai si è tirato indietro, tenacemente fedele a quell’I Care.
Don Milani resta un testimone coerente fino all’osso. Colpisce la sua capacità di annullarsi tra i poveri, fra i senza nome e senza importanza. Don Bensi un giorno salì a Barbiana senza preavviso. Lo trovò sdraiato sul letto, molto malato, circondato dai ragazzi. Scrisse:

«Erano lì tutti in silenzio, con gli occhi fissi su di me come se stessero assaporando sino in fondo la loro sofferenza, la loro solitudine, la loro sconfitta umana e lui era uno di loro, non diverso, non migliore. Mi vennero i brividi. Capii l’abisso del suo amore per quelli che aveva scelto e che l’avevano accettato. L’uomo che sapeva tante lingue, in grado di parlare di teologia, di filosofia, d’arte, di letteratura, d’astrologia, di matematica e di politica come pochi altri, lì nel buio di quella stanza... fu per me e rimane, l’immagine più eroica del cristiano e del sacerdote».

Quando in Lettera a una professoressa i ragazzi scrivono:

«Fai strada ai poveri senza farti strada... è l’ultima missione della tua classe»,

più che lanciare un monito all’anonima insegnante sembrano voler esaltare lo stile incarnato dal priore, che l’I Care ce l’aveva scritto in cuore non solo sulla porta di casa.

don Roberto Ravazzolo

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