«L’Europa non sia ostaggio degli egoismi dei governi»

Accanto all’ondata di populismo che va attraversando il continente, vi è un chiaro pericolo da scongiurare: il palese ridimensionamento delle istituzioni comunitarie a vantaggio di un’Unione sempre più guidata dai governi nazionali. Ma così l’Europa perde la sua anima…

«L’Europa non sia ostaggio degli egoismi dei governi»

I Padri fondatori dell'Europa condussero il loro impegno al fine di aprire una fase di pace, dopo un periodo di guerre devastanti, ma anche per favorire lo sviluppo, convinti dell'importanza che un'unione di forze – particolarmente attraverso sovranità condivise – poteva assumere per affrontare un processo di globalizzazione ricco di opportunità, ma anche di problemi transnazionali a cui non poteva essere data risposta dai singoli stati. Un'intuizione presto confermata dai fatti, nel momento in cui i governi nazionali hanno assunto di fronte ai nuovi fenomeni di interconnessione planetaria un atteggiamento fatalistico, rimanendo divisi e finendo per essere così semplici spettatori di fronte all'azione speculativa di ristrette lobby.
Il danno per il bene comune è emerso chiaramente quando, in particolare, enormi masse di capitali che non conoscono i confini segnati dai governi nazionali sono state dirottate dall'economia reale a quella virtuale, alla finanza fine a se stessa, con pesanti problemi di disoccupazione ed enormi disuguaglianze.

Il processo di costruzione europea è proceduto gradualmente, con comuni benefici che avrebbero potuto essere ben maggiori e più stabili se non fosse intervenuto in alcuni momenti il blocco di decisioni che comportavano una molto più tempestiva e forte integrazione
Come quando De Gasperi, con l’apporto di Spinelli, convinse i partner europei a inserire il progetto originario della Ced (Comunità europea di difesa) in un più ampio progetto di comunità politica europea (Cep) caratterizzata anche da istituzioni democratiche sovranazionali, che non ebbe positiva conclusione perché bocciato nel 1954 per pochi voti dal parlamento francese. Come quando il progetto di Trattato elaborato da Spinelli e finalizzato all’istituzione dell’Unione Europea trovò nel Parlamento europeo vastissimi consensi, ma non analoga accoglienza da parte dei governi. Ancora, come quando Francia e Olanda bocciarono nel 2005 la Costituzione europea.
Questo graduale processo di integrazione ha subito un arresto negli anni recenti. E, per certi aspetti, anche un’inversione di rotta, in una situazione in cui alla ripresa di un forte individualismo si è andata accompagnando quella di un forte nazionalismo. La conduzione dell'Europa si è andata così caratterizzando in termini fortemente intergovernativi, anche – a volte – forzando l'interpretazione dei trattati.

Un’Europa sempre più intergovernativa

L’attuale situazione presenta oggi aspetti ai limiti del paradosso. Sono stati i 28 governi che, con i loro Consigli a Bruxelles, hanno largamente determinato l’andamento delle cose europee, con risultati spesso carenti.
I Consigli a 28 membri, caratterizzati da molteplici dissidi frutto degli egoismi nazionali che sono più volte sfociati in contrapposizioni e reciproci veti, non si sono infatti dimostrati capaci di dare risposte in termini tempestivi e adeguati a complessi problemi transnazionali come quelli della grande crisi economica (e quindi dell’occupazione), dell’immigrazione, del terrorismo, della sicurezza, di un incisivo ruolo europeo nell’assetto globale.
Questo vuoto è tanto più grave perché giunge in un momento in cui sono in atto, da parte di altre realtà politiche, molteplici azioni finalizzate a profondi cambiamenti sia di carattere geopolitico sia di natura geoeconomica, senza dimenticare che tali carenti risultati hanno influito anche sulle condizioni di tanti cittadini europei e alimentato una crescente sfiducia nell'opinione pubblica europea.

Si è andato così determinando una sorta di sdoppiamento di personalità in molti leader di governo. Quegli stessi che a Bruxelles sono stati co-protagonisti della gestione europea, sottolineano oggi le carenze dell’Europa come se questa fosse una realtà anonima, e comunque come se non fossero stati loro stessi ad avere avuto un ruolo fondamentale nelle sue decisioni. 

Si arriva al punto che l’influente ministro delle finanze tedesche Wolfgang Schäuble ha rilasciato lunghe dichiarazioni in una recente intervista pubblicata sul Corriere della sera e così riassunta nel titolo: “Europa, attenta. È l’ora più seria. Se Bruxelles è ferma, faranno i governi”.
Ma chi ha deciso finora? Chi ha segnato una linea di austerità pressoché a senso unico e non funzionale alla coesione sociale e territoriale, alle risposte necessarie per l’occupazione e per contrastare le disuguaglianze? Chi non procede a un’organica strategia solidale nei confronti dei migranti? E ancora, chi mette il blocco all’attuazione del terzo pilastro dell’unione bancaria e cioè a un’assicurazione comune dei depositi? E chi poi non procede a una adeguata unione delle forze per far fronte alla fondamentale materia della sicurezza, con i suoi attuali drammatici aspetti? Chi spinge per processi di rinazionalizzazione?

La Brexit e l’ondata di populismo

Le vicende del referendum britannico confermano in termini eclatanti la necessità di profonde riflessioni e di conseguenti cambiamenti dei comportamenti. Certo il risultato va rigorosamente rispettato, ma c’è la necessità di dare una grande attenzione all’evento per le conseguenze e le implicazioni generali che esso comporta e per i necessari negoziati di separazione, che sarebbe auspicabile fossero avviati in tempi celeri, anche per evitare fibrillazioni dei mercati e manovre speculative.
I primi effetti del referendum non sembrano entusiasmanti e tanti e celeri sono apparsi i ripensamenti.
Il comportamento dei leader, in particolare, richiede una specifica considerazione. Il primo ministro Cameron che ha promosso, in una logica da “roulette russa”, il referendum a fini interni – non di stato, ma di partito – subito dopo il risultato annuncia le dimissioni e scarica sul successore la patata bollente dell’“uscita”. Il portabandiera della campagna per la Brexit, Boris Johnson, il vincitore, non si è candidato alla successione. E il leader dell’Ukip Farange, anche lui presunto vincitore, abbandona l’incarico politico interno e rimane invece ben abbarbicato al seggio di europarlamentare a Bruxelles: esattamente il contrario di quel che coerenza e logica presumerebbero.
La politica non può procedere in termini di slogan, con valutazioni di breve momento determinate da preoccupazioni elettoralistiche. Abbisogna di essere coltivata nella sua complessità, tanto più quando concerne problemi di particolare importanza. E la rappresentazione dei problemi alla pubblica opinione dovrebbe avvenire con rigorosa puntualità circa la realtà dei fatti e con i necessari approfondimenti.
Col populismo non si danno invece serie risposte ai problemi, non si rende certo il popolo protagonista né vero beneficiario della politica, ma si tende a strumentalizzare cittadini che sono già stati pesantemente penalizzati dalla disoccupazione, dal crescere delle disuguaglianze, da carenti condizioni economico sociali. E sempre più numerosi sono, purtroppo, i paesi in cui il populismo si va diffondendo...

Europa, un patrimonio concreto

Di fronte a tale complessità di problemi, sembra opportuno sottolineare due dati.
Il primo è la positiva rilevanza del fattore Europa, sia se si guarda alla situazione conflittuale che segnava il nostro continente prima dell’iniziativa dei Padri fondatori, sia se si guarda allo scenario odierno, segnato da una sempre più rapida globalizzazione, da profonde innovazioni e trasformazioni, da sfide che gli stati non possono affrontare in ordine sparso.
È un patrimonio, quello trasmessoci, che non è solo costituito dai fondamentali ideali enunciati ma anche dal loro incarnarsi nella realtà nel corso dei decenni, caratterizzandola in termini di pace, di sviluppo, di crescita civile. Certo con limiti, ma comunque dando corpo a un’Europa divenuta l’area con il maggiore benessere e la maggiore coesione sociale al mondo. I leader politici, e soprattutto i governanti, dovrebbero sempre rammentarlo all’opinione pubblica e prima ancora a loro stessi.

Il secondo dato è che tale patrimonio non può sopravvivere né tantomeno svilupparsi in termini automatici, come hanno dimostrato i fatti degli ultimi anni.
Una governance che privilegi pressoché esclusivamente le tematiche economiche – senza peraltro nemmeno riuscire a dare risposte adeguate – e caratterizzata sempre più in termini intergovernativi non corrisponde alle esigenze. Non consente la salvaguardia del patrimonio trasmesso, alimenta i populismi, ma soprattutto non fornisce doverose risposte a tanti cittadini, e specialmente ai giovani per i quali si è bloccato o addirittura è sceso l’ascensore sociale, è venuta a mancare la possibilità di accedere ad alti livelli di istruzione e alla stessa occupazione, fondamentale in sé e per godere di altri diritti essenziali. Tanto meno corrispondono a esigenze di uguaglianza, solidarietà, democrazia, efficienza, ruolo nell’ambito mondiale, gli ambigui tentativi di accentuare ulteriormente l’impostazione intergovernativa.
Pensiamo all’intuizione di un ministro del Tesoro europeo, in stretto collegamento con l’europarlamento e da questo controllato, che sarebbe stato un importante passo in avanti in termini di integrazione nella giusta direzione. Ora invece questo ministro, secondo gli “intergovernativi”, dovrebbe essere scelto dai ministri finanziari dei governi nazionali e da questi soprattutto dovrebbe essere controllato. Un pesante passo indietro, invece che in avanti, in una logica non di autentico federalismo, ma invece in quella che Jurgen Habermans definirebbe di «federalismo esecutivo».

Ancora si sta conducendo un’azione tendente al ridimensionamento delle istituzioni sovranazionali. Per quanto concerne la Commissione Europea, ancora Schäuble nell’intervista citata ammonisce: «Se la Commissione non collabora, allora ci occuperemo noi della questione, risolvendo appunto i problemi tra governi». La tendenza è quindi a sottometterla. Addirittura per quanto concerne il Parlamento europeo il ministro tedesco afferma: «Siamo onesti, la domanda se il Parlamento europeo abbia o meno un ruolo decisivo non è quella che preoccupa la gente in modo particolare».

Il ruolo del parlamento è invece fondamentale ai fini della caratterizzazione democratica dell’Unione e per questo è necessario fare attenzione anche circa il “ruolo” europeo dei parlamenti nazionali, perché questo comporta rischi di un indebolimento del Parlamento europeo e rende più complesse le procedure decisionali.
Piuttosto è necessario il massimo impegno relativamente ai parlamenti nazionali nel salvaguardarne il ruolo essenziale nell’ambito dei singoli stati: non sono infrequenti, infatti, oggi i tentativi di ridimensionamento. Uguale attenzione richiede il rilancio del “direttorio” europeo che sempre più evidenzia un’Unione non paritaria, ma condizionata dai più forti o – più realisticamente – dal più forte, essendo chiaro che i convitati servono da contorno, una sorta di alibi.
Ci si allontana così dalla Germania europea di Adenauer e Kohl e, sembra, ci si avvicina a un’Europa tedesca.

Un piano per il lavoro

Per tutte queste ragioni è necessario fermare il processo involutivo che caratterizza attualmente l’Unione e che contiene i germi della disgregazione. Ma un’azione di pura difesa non basta: è indispensabile un’azione di rilancio, di positiva riforma che riscopra appieno le radici autentiche dell’Europa e insieme sia funzionale alla presente situazione. È necessario quindi, oggi più che mai, operare per una comunità come quella concepita da Spinelli e dagli altri Padri fondatori: una comunità di valori, plasmata sul modello federale, solidale e democratico. E sarebbe importante che fosse il Parlamento europeo ad assumere l’iniziativa per la riforma, per un’Unione politica con carattere federale e quindi con una chiara distinzione di competenze nel proprio ambito: politiche gestite in sede centrale attraverso una sovranità condivisa e politiche invece gestite a livello nazionale. Ancora, serve una Comunità con essenziale considerazione per i cittadini: è da ricordare che già nel trattato di Maastricht c’erano le condizioni perché l’Ue fosse un’unione di cittadini e di stati mentre, nei fatti, l’Ue è solo un’unione di stati.
In definitiva, la riforma dovrebbe concretarsi in una Comunità democratica in grado di dare risposta alle attuali sfide epocali. Sarebbe importante che contemporaneamente all'iniziativa finalizzata a una nuova governance europea, ne fosse assunta un'altra relativa a un piano per l'occupazione ben più adeguato rispetto alle ipotesi finora formulate. Un piano approfondito e articolato che coinvolga sia gli aspetti politici sia quelli economici, con un corretto rapporto tra i medesimi. Non solo uno schema generale, ma accompagnato da specifiche indicazioni particolarmente in ordine agli strumenti. E quindi al fattore fondamentale degli investimenti, a cominciare da quelli per scuola, formazione, ricerca. Il progetto per l'occupazione sarebbe molto importante in sé, ma anche per dare una dimostrazione ai cittadini della possibilità di una svolta per l'Europa caratterizzata dalla concretezza.

Un’Europa, due livelli di integrazione?

È molto probabile che alcuni stati non condividano una riforma così concepita. E allora, accanto alla comunità di modello federale, si potrebbe ipotizzare un’altra comunità con competenze (sostanzialmente di carattere economico) e forme di integrazione più limitate. Due livelli distinti di comunità, di cui la prima fondamentale, ma con un collegamento tra le medesime. Un progetto poco realistico? Ma sarebbe forse più realistico fare da spettatori passivi al processo di involuzione che sta caratterizzando l’Ue, col concreto rischio di una disintegrazione che sembra costituire anche un obiettivo del terrorismo?

La voce profetica di papa Francesco

Un tale progetto richiederebbe tempi non brevi, ma proprio per questo andrebbe formulato tempestivamente. Negli ultimi tempi i messaggi più forti per l’integrazione europea sono venuti da due “extraeuropei” (papa Francesco e Obama) e da un europeo “tecnico”, Mario Draghi.
Proprio papa Francesco, in un recente messaggio rivolto ai partecipanti all’incontro ecumenico di Monaco, spinge l’Europa a chiedersi se il suo immenso patrimonio permeato di cristianesimo appartenga ormai a «un museo» o sia ancora in grado di donare i suoi tesori all’umanità intera. E ricorda che la risposta alle difficoltà non possa che essere una sola: la forza di «mettersi assieme». Sarebbe essenziale che anche dai politici europei venisse un messaggio in termini analoghi.

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