Testamento biologico. Tra bioetica e biopolitica

Alla finitezza della vita appartiene anche il fatto di permettere alla morte di sopravvenire a tempo debito. Fin qui la bioetica. Per quanto concerne invece la biopolitica, il rischio è di alimentare le rivendicazioni di quanti in modo reattivo e indiscriminato invocano dallo stato la legalizzazione dell’eutanasia

Testamento biologico. Tra bioetica e biopolitica

Una recente dichiarazione di papa Francesco sul fine vita è stata ripresa e rilanciata dai giornali con titoli più o meno sensazionalistici e in prima pagina. Qualcuno ha parlato di “svolta”, qualche altro di “rivoluzione” nella dottrina della chiesa. Nel suo intervento invece papa Francesco si era limitato a citare un discorso di 60 anni fa di Pio XII e il Catechismo della chiesa cattolica che prevede situazioni nelle quali “non si vuole procurare la morte”, ma “si accetta di non poterla impedire”.

Vale la pena anche per i nostri lettori di riportare le parole esatte di Pio XII, ma soprattutto l’interpretazione che ne è stata data negli anni successivi dallo stesso magistero in riferimento allo stato vegetativo in cui molte persone hanno bisogno di venire alimentate e idratate. Pio XII ovviamente non parla di questo problema particolare, formula però un principio sul dovere di curarsi e farsi curare ricordando a tutti che tale dovere

«non obbliga, generalmente, che all'impiego dei mezzi ordinari (secondo le circostanze di persone, di luoghi, di tempo, di cultura), ossia, di quei mezzi che non impongono un onere straordinario per se stessi o per gli altri. Un obbligo più severo – osserva il papa – sarebbe troppo pesante per la maggior parte degli uomini e renderebbe troppo difficile il raggiungimento di importanti valori superiori».

Ora, se certamente la respirazione artificiale può essere considerata – nelle circostanze attuali – un “mezzo ordinario”, non altrettanto si può dire in riferimento ad altri mezzi terapeutici nuovi o di una certa complessità il cui uso in determinate situazioni appare sproporzionato al bene del malato e a volte gli rendono più penosa sia la vita che il decesso.

Un documento sull’eutanasia della Congregazione per la dottrina della fede del 1980 precisa che «nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi».

Qual è però il significato del concetto di “cure normali” dovute al malato? Ma soprattutto come intendere e interpretare questo concetto in riferimento al dovere o meno di alimentare e idratare artificialmente le persone che si trovano in una situazione di stato vegetativo permanente?

Per alcuni si tratta di un mezzo naturale di conservazione della vita, per altri di un atto medico. Al riguardo suscitò grande scalpore un’affermazione di Giovanni Paolo II durante un discorso del 20 marzo 2004 in cui disse: «In particolare, vorrei sottolineare come la somministrazione di acqua e cibo, anche quando avvenisse per vie artificiali, rappresenti sempre un mezzo naturale di conservazione della vita, non un atto medico. Il suo uso pertanto sarà da considerarsi, in linea di principio, ordinario e proporzionato, e come tale moralmente obbligatorio, nella misura in cui e fino a quando esso dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che nella fattispecie consiste nel procurare nutrimento al paziente e lenimento delle sofferenze».

A questa affermazione è seguito un dibattito che ha determinato un successivo intervento di Giovanni Paolo II, il quale il 12 novembre dello stesso anno è ritornato sul tema attenuando la sua precedente presa di posizione e affermando che se la vera compassione da un lato «promuove ogni ragionevole sforzo per favorire la guarigione del paziente», dall’altro «aiuta a fermarsi quando nessuna azione risulta ormai utile a tale fine». Vi è stato chi ha visto in questa seconda presa di posizione del papa una correzione prudente e indiretta della prima. Che peraltro lo stesso Giovanni Paolo II, ormai dolorante per la malattia che lo affliggeva, avrebbe applicato a se stesso rivolgendo ai medici che lo curavano la famosa supplica che tutti conserviamo nel cuore: «Lasciatemi andare».

A partire da simili premesse e interpretazioni consegue che la negazione ovvero la cessazione di misure terapeutiche atte al prolungamento della vita non costituisce in quanto tale un attacco alla vita del paziente, né alla sua dignità.

Consegue anche che discernere se alimentazione e idratazione artificiale, intese come cure dovute, debbano essere somministrate oppure omesse è di fatto una questione che dipende da una parte dall’analisi delle singole circostanze, dall’altra dall’applicazione del criterio di proporzionalità delle cure. Criterio che a sua volta rimanda all’analisi delle conseguenze positive e negative, previste o prevedibili, per sé e per gli altri, di determinati trattamenti. Il che implica che in determinate situazioni un’eventuale rinuncia od omissione delle cure non solo è permessa, ma può diventare perfino obbligatoria.

Si pensi al caso in cui l’aspettativa di vita non sia più in un rapporto adeguato alla duplice finalità che Giovanni Paolo II ha assegnato all’alimentazione e idratazione artificiale: procurare nutrimento al paziente e lenimento alle sue sofferenze. Alla finitezza della vita appartiene anche il fatto di permettere alla morte di sopravvenire a tempo debito.

Fin qui la bioetica.

Per quanto concerne invece la biopolitica vi è chi tenta di offuscare mediante un linguaggio impreciso che equipara indistintamente certe forme di interruzione di terapia all’omicidio la costante tradizione dottrinale della chiesa che ha sempre insistito sulla differenza determinante tra procurare la morte attivamente (= uccidere) e permettere passivamente che avvenga (= permettere il morire). Insistere su tale equiparazione non solo confonde le idee, ma quel che è peggio alimenta e incentiva le rivendicazioni di quanti in modo reattivo e indiscriminato invocano dallo stato la legalizzazione dell’eutanasia.

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