XV Domenica del tempo ordinario *Domenica 12 luglio 2015

Marco 6, 7-13

In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.

Non senza di noi

Sfogliamo, oggi, il gran libro delle missioni, perché Gesù Signore decide di far camminare il Regno di Dio anche sulle nostre traballanti gambe; egli «manda sulla terra il suo messaggio: la sua parola corre veloce» (Sal 147,15)… anche nelle lentezze e approssimazioni del nostro testimoniare e annunciare. E tuttavia, come scrisse in maniera incisiva François Mauriac: «Non giudicate Dio dalla balbuzie dei suoi servitori!». Immagino l’inno di benedizione della seconda lettura – «Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo... in Lui ci ha scelti prima della creazione del mondo» – come una vertiginosa zoomata per cui da un dettaglio visto da vicino si passa a un punto di vista lontanissimo e con un colpo d’occhio s’abbraccia una scena vastissima. Dio immenso parla per tutti e a tutti i suoi figli ma ad alcuni affida una chiamata specifica, unendo strettamente la loro vita a quella del suo Figlio. E perciò questi battezzati vivranno completamente a servizio del battesimo degli altri. Questa chiamata può avere anche i toni della sorpresa, come quella di Amos che nella prima lettura sottolinea di essere stato letteralmente afferrato da Dio mentre si dedicava a tutt’altre occupazioni, bucoliche: «Ero un mandriano e coltivavo piante di sicomoro».

Uno stile

«Prese a mandarli a due a due»: il Maestro cominciò allora ma questo invio continua anche oggi e ci coinvolge. Per gli ebrei del tempo una testimonianza andava validata da almeno due testimoni, ma qui si vuol far capire che il primo messaggio è la comunione fra missionari. Ora parliamo di sinodalità, ma la sostanza è quella. Il “mittente” dell’invio è la Trinità santa, «unico vero Dio in tre persone uguali e distinte». Gli inviati hanno un equipaggiamento che richiama direttamente quello del popolo ebreo in cammino di libertà verso la Terra promessa (cfr Es 12,11). Annunciare l’amore del Signore è sempre innanzitutto restituire libertà a chi dovrebbe vivere da figlio di Dio e invece rischia di piegare la schiena agli idoli vani del mondo.

Il bastone... a forma di croce

«Ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone», non solo per qualificarli come in cammino sulle strade del mondo. Mosè spesso compare nel libro dell’Esodo con il bastone in mano, soprattutto nel momento clou della liberazione del popolo: «Il Signore disse a Mosè: ordina agli Israeliti di riprendere il cammino. Tu intanto alza il bastone, stendi la mano sul mare e dividilo, perché gli Israeliti entrino nel mare all’asciutto» (Es 14,16). Il bastone di legno di Mosè e quello in mano a coloro che Gesù invia fanno pensare allora alla croce di Nostro Signore. Gesù spesso nel vangelo è presentato come il nuovo, definitivo Mosè: il bastone-croce è da afferrare strettamente perché è mistero non di
sconfitta e morte ma di amore e resurrezione. Non illudiamoci, la storia insegna che le strade della missione sono intrise di sangue di martiri. Vivere l’invio è contribuire a generare Pasqua, non senza passare attraverso passione e morte: vale per i missionari ad gentes, vale per l’evangelizzazione nelle parrocchie.

Esorcismo

«A Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno»: così dice Amasia contro Amos nella prima lettura. Va in scena lo scontro fra una religione asservita al potere costituito e l’ispirazione libera, forte e non convenzionale di Amos. L’unico Re da servire e riverire è Dio, perchè suo strenuo volere è garantire dignità, pace e libertà ai suoi figli. Il male c’è e mette alla prova l’essere umano: nel vangelo il primo compito degli inviati è esortare a un completo rovesciamento della mentalità (conversione) e l’esorcismo. Ogni celebrazione del battesimo inizia con un esorcismo, con l’unzione con l’olio dei catecumeni... Difendersi dal male è cosa seria. Nel catecumenato queste unzioni punteggiano il cammino, non di rado faticoso, di chi vuole abbracciare il Cristo nella fede della chiesa.

Sicomori da incidere

Trovo illuminante questa riflessione di Bendetto XVI. «Basilio Magno si riallaccia all’autopresentazione del profeta Amos, il quale diceva di sé: “Pastore sono e coltivatore di sicomori” (7,14). La traduzione greca del libro del profeta, la LXX, rende in modo più chiaro l’ultima espressione: Io ero uno che taglia i sicomori. La traduzione si fonda sul fatto che i frutti del sicomoro devono essere incisi prima del raccolto, poi maturano entro pochi giorni. Basilio scrive: “Il sicomoro è un albero, che produce moltissimi frutti. Ma non hanno alcun sapore, se non li si incide accuratamente e non si lascia fuoriuscire il loro succo, cosicché divengano gradevoli al gusto. Per questo motivo, noi riteniamo, (il sicomoro) è un simbolo per l’insieme dei popoli pagani: esso forma una gran quantità, ma è allo stesso tempo insipido. Ciò deriva dalla vita secondo le abitudini pagane. Quando si riesce a inciderla con il logos-Gesù, si trasforma, diviene gustosa e utilizzabile”». «Il logos-Cristo ha bisogno dei suoi servitori, dei “coltivatori di sicomori”: l’intervento necessario presuppone competenza, conoscenza dei frutti e del loro processo di maturazione, esperienza e pazienza. Il vangelo è un taglio, una purificazione, che diviene maturazione e risanamento. È un taglio, che esige paziente approfondimento e comprensione, cosicché esso sia fatto nel momento giusto, nella fattispecie giusta e nel modo giusto, che esige quindi sensibilità, comprensione della cultura dal suo interno, dei suoi rischi e delle sue possibilità nascoste o anche palesi». 

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