Se la scuola perde il “potere”. Le radici delle violenze sugli insegnanti

Le aggressioni agli insegnanti hanno cause che sono più vaste, come la spettacolarizzazione della violenza sugli schermi, i social e quel che è peggio in tv.

Se la scuola perde il “potere”. Le radici delle violenze sugli insegnanti

I recenti fatti di violenza contro docenti e dirigenti devono innanzitutto farci riflettere su cosa abbia portato a questo. E chiederci se sia un problema interno alla scuola o se affondi la sue radici in cause che sono più vaste, come la spettacolarizzazione della violenza sugli schermi, i social e quel che è peggio in tv.

Partiamo dalla fine. I salotti televisivi di questi ultimi vent’anni presentano sempre il medesimo desolante panorama: un personaggio – come in un copione stabilito – dà in escandescenze, comincia a offendere un “avversario”. Parapiglia, intervento tardivo, talvolta ambiguamente assolutorio, del conduttore, ritorno all’ordine, audience salita, fine del programma.

Non è nulla in confronto a quanto accaduto ad Avola, Como, Foggia, certo, ma è una spia di quanto il nostro costume si sia imbarbarito, e di come i media corteggino questa barbarie, come nel proverbiale cane che si morde la coda. Se si guarda agli anni Sessanta-Ottanta, i confronti più seguiti erano tra i grandi leader politici che in tribuna elettorale se ne dicevano di tutti i colori, talvolta uscendo fuori dai limiti di allora, ma senza l’avvilente sceneggiatura che comprende nel migliore dei casi l’aggressione verbale.

Vi è poi il discorso della positivizzazione della violenza come risposta alla crisi della politica (e del lavoro) e riaffermazione dei propri diritti anche territoriali. Per cui alcuni spettacoli – e alcuni giochi che purtroppo emergono da certi social – invitano praticamente alla giustizia fai-da-te.

D’altra parte la trasformazione della scuola italiana non aiuta, anzi. La graduale e inavvertita burocratizzazione del lavoro di insegnamento sta diventando sempre più prestazione d’ufficio: c’è il registro elettronico che non sempre funziona, costringendo il docente al doppio lavoro di registrazione sul cartaceo e poi on line a casa propria, ci sono le funzioni di tutor, di coordinamento, di dipartimento, la parcellizzazione della votazione in griglie con precise voci: tutte funzioni che sono via via diventate oggetto di elaborazione quantica e numerica, portando gradualmente via il tempo e l’energia ad un lavoro, psicologico ed empatico, come quello dell’insegnamento.

Se si considera poi la situazione economica della presunta casta insegnante, viene da dar ragione a quegli storici che sostengono che il potere viene deriso – e abbattuto – solo quando mostra la sua debolezza, cioè quando non è più potere. Bisogna ovviamente intendersi sul concetto di “potere” parlando dell’insegnante. La sua autorità gli derivava dal rispetto per la sua capacità individuale della sua “storia” (curriculum di prestigio, capacità di spiegare, di concentrare l’attenzione su di sé e quindi sulla materia). Non era un semplice calcolatore alfa-numerico, in grado di trasformare numeri in altri numeri. Il recente rinnovo del contratto non ha cambiato, ovviamente, il suo status: prende sempre poco (e questo è un altro motivo do perdita del prestigio) rispetto alla qualità e alla quantità di un lavoro che lo impegna come tecnico, come professionista, come giudice, capace di discernimento, e però sempre più solo di fronte a classi sempre più numerose che presentano sempre più elementi di difficoltà. La perdita dell’aura, avrebbe detto Walter Benjamin, non è una cosa da poco: vuol dire semplicemente che non è più considerato autorevole. Sì, è una perdita di potere “buono” quella che sta causando una involuzione preoccupante nel luogo in cui dovrebbe nascere e crescere l’uomo nuovo del terzo millennio.

Marco Testi

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