Le Elisabettine in carcere: «Per testimoniare che non si è lasciati soli»

Suor Enrica Martello, elisabettina, 48 anni, religiosa da 25, ha lavorato a casa Santa Chiara, a fianco dei malati di Aids, per otto anni. Dal 2008 è presente nel carcere di Padova per due giorni alla settimana. «Questa presenza è espressione di una chiesa diocesana e della sua vitalità nella diversità di ministeri.Noi religiose siamo lì per testimoniare che non si è lasciati soli, ma che insieme, anche ai margini, si può ripartire».

Le Elisabettine in carcere: «Per testimoniare che non si è lasciati soli»

Educare alla carità con l’attenzione specifica alla dignità delle persona
Legge così la sua mission suor Enrica Martello, elisabettina, 48 anni, religiosa da 25. «Il mio essere suora è improntato al carisma della mia famiglia religiosa – spiega – L’immagine della nostra fondatrice, “Cavar anime dal fango”, ci sprona a essere strumenti del Signore per riportare ogni persona allo splendore dell’essere immagine del proprio Creatore».

Suor Enrica ha lavorato a casa Santa Chiara, a fianco dei malati di Aids, per otto anni
Dal 2008 è presente nel carcere di Padova per due giorni alla settimana. «Però il mio impegno principale è la responsabilità e formazione iniziale, nell’accompagnamento delle giovani che si avvicinano alla scelta della vita consacrata». Ma il suo servizio all’interno della casa di reclusione non è estraneo a questo percorso.
«Lo considero un’esperienza fondamentale anche per le giovani postulanti. La vicinanza con persone che si trovano in situazioni di particolare fatica e disagio diventa esperienza formativa di vita. Attraverso l’attenzione ai fratelli si cresce e si matura come persona e si individua la propria vocazione».

Suor Enrica è presente al Due Palazzi il sabato pomeriggio, dove svolge un’attività di animazione e condivisione sul vangelo della domenica
«Quest’anno mi sono stati affidati gli internati, cioè chi ha terminato di scontare la pena, ma giudicato recidivo dal magistrato, resta in carcere. E poi la domenica mattina partecipo alla messa. Ma non sono sola».
Con lei, altre due Elisabettine e l’équipe composta dal cappellano del carcere, il diacono, un frate e alcuni catechisti. «Questa presenza è espressione di una chiesa diocesana e della sua vitalità nella diversità di ministeri. Il fatto poi di essere tre religiose traduce uno stile di comunità e famiglia che si prende cura delle persone che vivono in situazioni di particolare fatica. È un modo di esserci, in un luogo dove la solitudine è tanta! Noi religiose siamo lì per testimoniare che non si è lasciati soli, ma che insieme, anche ai margini, si può ripartire».

Cosa significa allora essere religiosa dentro il carcere?
«Di fatto si fa esperienza di quella comunione originaria che ci viene dall’essere figli di Dio e quindi fratelli tra di noi. L’essere religiosa è condivisione, neanche espressa a volte, di una fede che è proprio questo: essere creatura del Signore, desiderio che la sua immagine risplenda e si riveli in ciascuno. Per noi si traduce anche solo nell’esserci e nel trasmettere che camminiamo insieme, nella dignità. E questo lo percepiscono: sentono che non sei lì per convertire o giudicare nessuno, ma perché ha un senso condividere e donare del tempo. Enzo Bianchi dice che dare il tempo è dare la vita. Com’è vero!».

Nello stare con i poveri, in quest’esperienza grande di fede e di umanità, si riceve tanto
«Con loro sono amplificate le categorie del Signore – sottolinea suor Enrica – Senti questa dignità e forza di portare sofferenze particolari e con coraggio di fare verità e di diventare liberi in una condizione così particolare come la reclusione. Con loro incontro un Dio che non si dà mai per vinto, che crede nell’uomo sempre e comunque. Che sa chi ha fatto e come l’ha fatto, e che è convinto che quell’immagine bella troverà modo di risplendere».

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