Santini: «Italia reattiva se c'è da dire No, tutt'altro se c'è da costruire»

Il senatore Pd, relatore della legge di bilancio per il Pd, non nasconde l'amarezza per il risultato, ma sottolinea che il 40 per cento di voti per il Sì ha una valenza politica tutt'altro che trascurabile. «Renzi ha pagato il malcontento della gente dopo otto anni di crisi economica».

Santini: «Italia reattiva se c'è da dire No, tutt'altro se c'è da costruire»

Il telefono squilla tra una riunione e l’altra. A tarda sera Giorgio Santini risponde direttamente dal suo ufficio romano.
Il senatore vicentino è relatore della legge di bilancio a palazzo Madama: l’ultimo atto del governo Renzi, dopo la sconfitta al referendum del 4 dicembre, passerà dalle sue mani.

Senatore, prevale l’amarezza per il voto di domenica scorsa o la preoccupazione per lo scenario che si apre adesso?

«Difficile dirlo… certo, l’amarezza viene dal constatare che questo è un paese molto reattivo quando si tratta di dire di No, mentre è sempre molto difficile trovare alleanze larghe che sostengano le riforme. La critica principale delle ore successive al voto è stata: le riforme vanno fatte a larga maggioranza. Ma all’inizio dell’iter la maggioranza era tale per cui non avremmo nemmeno potuto fare il referendum, perché oltre i due terzi. Purtoppo, per ragioni completamente staccate dalla costituzione, come l’elezione di Mattarella al Quirinale, la maggioranza si è completamente disfatta, portandoci al referendum che poi più che sulla Carta è divenuto un voto politico».

Ma perché insistere, come Pd, per andare al referendum? Non era obbligatorio. Al contrario, i due terzi dei consensi lo avrebbero impedito.
«Sono convinto che in un modo o nell’altro al referendum saremmo andati comunque. Noi del Sì lo abbiamo chiesto perché a suo tempo c’era stata la forte polemica sulla sentenza della corte costituzionale sul Porcellum: per molti questo parlamento non era legittimato “a mettere le mani” sulla Costituzione, mentre invece le riforme erano una delle condizioni poste da Napolitano per sbloccare la situazione tre anni fa».

Blocco in cui ora rischiamo di ripiombare…

«Esatto. Oggi in molti vogliono il voto immediato, ma se lo facessimo con l’attuale legge elettorale avremmo ancora una volta Camera e Senato con due maggioranze diverse, eppure entrambe dovrebbero dare la fiducia: quindi niente governabilità. Ci troviamo negli stessi identici dilemmi che hanno reso necessaria la riforma costituzionale. L’amarezza è tutta qui: prevale il gioco di bottega su un gioco di paese».

Massimo Cacciari ha parlato di «istinti suicidi» da parte del Sì. È così o mille giorni di governo avevano comunque usurato Renzi?
«La verità è che la battaglia in campagna elettorale era persa in partenza. Mentre noi dovevamo rendere conto di testi scritti, peraltro contaminati dalle mediazioni parlamentari, il fonte del No si è limitato a farci le pulci senza fornire proposte o rimedi sul merito. Ma il No in realtà ha raccolto tutto il malumore della gente dopo otto anni di crisi economica pesante: in questo contesto chi governa perde sempre. Le Europee del 2013 fanno eccezione perché il governo era nato da due mesi, e non era certo logorato».

Le politiche di Renzi non sono state sufficienti, dunque. Eppure il 40 per cento del No è tutto dell’attuale maggioranza.

«Siamo amareggiati perché un lavoro di due anni e mezzo, perfettibile ma che risolveva i nodi della doppia fiducia al governo e di un iter legislativo troppo macchinoso, è stato buttato al macero. Ma il dato politico inoppugnabile di questo voto ci dice che Pd e Ncd hanno almeno il 35 del 40 per cento del Sì, mentre il 60 per cento del No va diviso tra molte forze politiche e il M5S oggi al 30 per cento».

Dopo la legge di Bilancio il governo si dimetterà. Ma la maggioranza rimane a voi.
«Un nuovo governo si dovrà fare ma non andrà oltre i tre mesi necessari a fare una nuova legge elettorale. A maggio, al più tardi, si voterà».

Così però rimarranno appese molte riforme, tra cui quelle della concorrenza, dell’editoria, della pubblica amministrazione.
«Purtroppo in Italia non si comprende che la stabilità, chiunque sia al governo, è un valore. Infatti dal 1994 a oggi solo due legislature sono arrivate a naturale scadenza: quella del 1996, che però ha visto tre governi di centrosinistra in cinque anni, e quella dal 2001 al 2006. E non vengono di certo ricordate per i risultati che hanno ottenuto».

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