La festa degli alberi? Ormai la celebriamo a “colpi di scure”

Torno a scrivere su una realtà che puntualmente mi turba. Il 21 marzo, convenzionalmente da l’avvio alla primavera. Stagione amena, con fiori e profumi, dove i poeti si scatenano e gli amori impazzano. Tempo in cui per ricordare tutto ciò, nelle scuole di un tempo si celebrava il rito agreste della “festa degli alberi”, con migliaia di piantumazioni. E oggi?

La festa degli alberi? Ormai la celebriamo a “colpi di scure”

Torno a riscrivere su una realtà che puntualmente mi turba.
Lo voglio fare utilizzando una desueta espressione usata da un amico di buona sensibilità, quando dice: “E’ un’ecatombe, quanto sta accadendo agli alberi in questi mesi!”.
Termine con il quale i greci definivano “hecatòmbe” una cerimonia sacra caratterizzata dall'uccisione di animali offerti in sacrificio a una divinità, ma che può essere contingente se rapporto al “sacrifico degli alberi” sull’altare della stupidità dei nostri tempi.

Ne parlo giustappunto a ridosso del 21 di marzo, che convenzionalmente da l’avvio alla primavera.
Stagione amena, con fiori e profumi, dove i poeti si scatenano e gli amori impazzano.
Tempo in cui per ricordare tutto ciò, nelle scuole di un tempo si celebrava il rito agreste della “festa degli alberi”, con migliaia di piantumazioni.

Una liturgia, quella del piantare oggi per il futuro che sarà, quanto mai lontana dalla nostra realtà del consumare tutto e ora. Se allora la pianticella era vista come un’opportunità, oggi la si potrebbe definire un investimento, regalare o piantumare un alberello ai giorni nostri si trasforma in una preoccupazione. Per alcuni si tratta pure di un “problema sociale”. Lo pensano gli amministratori impegnati nella gestione del verde pubblico. Lo sostengono i confinanti sempre pronti a trattare un albero come un imputato o minaccia.

Tutto pare concorre in termini di sicurezza a confinare l’albero in creatura da “ammaestrare” e quando non ci si riesce, c’è sempre la motosega a risolvere la questione.
E poco importa sapere che “per abbattere un albero servono pochi minuti, mentre per farlo ricrescere servono altrettanti anni”.

Con la fine della civiltà contadina, si sono dissolti anche i buoni propositi verso gli alberi: quella della cultura arborea.
Il buon senso non è passato per tradizione in mano ai moderni potatori. I vivaisti divenuti “gestori” dei giardini, impartiscono le loro leggi con capitozza ture e potature che non hanno più niente di naturale.
Così è venuta meno la stessa abitudine alle forme naturali: provate a vedere se in giro scorgete ancora forme arboree spontanea. Impossibile distinguere la globosità della chioma di un tiglio da quella piramidale di un platano. Le poche querce rimaste sembrano essersi trasformate in carpini. Così abeti, pini, magnolie e cedri sono stati standardizzati.

Chi pota spesso ignora o non sa proprio: la regola resta “tagliare, accorciare o abbattere”.
I più vedono solo i “difetti” degli alberi: la caduta delle foglie, le radici invadenti e la chioma che si espande. Pubblico e privato in questo si allineano e si alleano, dichiarando guerra senza confine ad ogni forma vegetale.
Poco a poco, questo cambia il paesaggio. La pianura è sempre più piatta per l’assenza di siepi, alberature o alberi centenari. Ogni pretesto pare buono per scordarsi quanto gli alberi restino alla base della nostra stessa esistenza e sopravvivenza.

Prima abbiamo perso gli alberi monumentali. Ora stanno cadendo, siepi e filari. Ci sono decine di scuse pronte a giustificare questa “ecatombe ecologica”. Così si fa prima a sradicare pensando di risolvere il problema, mentre la scienza ci dimostra che triplichiamo le conseguenze e i rischi (deforestazione, vento, erosione, fertilità, CO2, polveri sottili, ossigeno, biodiversità animale, ecc.). Basta starsene in campagna per convincersi di questo fenomeno, mentre in città si tenta di far mettere radici sulle pareti verticali dei moderni grattacieli.

Dalla festa degli alberi siamo così arrivati a far “festa” agli alberi: abbattendoli.
Un paese senza più alberi è un distintivo segnale della dilagante stupidità che si è messa a pensare. C’è da preoccuparsi!

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