Terra terra… Le scomode verità sull'immigrazione che preferiamo non vedere

La ricorderemo come l’estate delle “grandi ondate”: quella di calore (fino a 40 gradi) e dei migranti sbarcati o morti a migliaia. In entrambi i fattori le cause sono quasi tutte riconducibili agli interventi umani. C’è l’effetto serra acclarato che ha reso torrida l’estate record 2015, con il surriscaldamento del pianeta che invece di diminuire, aumenta per via della maggiore richiesta di energia da parte dei paesi emergenti. C’è poi “l’ondata” umanitaria dei profughi che infiamma la politica e l’umore dei paesi chiamati a ospitare chi fugge da guerre, carestie e povertà.

Terra terra… Le scomode verità sull'immigrazione che preferiamo non vedere

Il ginepraio è di quelli che certamente può essere ricondotto a un fenomeno di proporzioni bibliche per le proporzione presenti e future.
Sia l’effetto serra che l’immigrazione godono da meno di un decennio di una definizione che serve a bollare ogni intervento: “emergenza”. Parola sciorinata in ogni catastrofe naturale o umanitaria.
Parlavamo di “emergenza” già negli anni 1975-79 con i “boat people” cambogiani e vietnamiti, quando due milioni di persone fuggirono dal loro paese per raggiungere l’America, l’Australia e l’Europa. Qualche migliaio di loro raggiunge pure il Veneto.
Ci fu poi l’emergenza albanese, con i barconi che nel ‘91 portarono sulle nostre spiagge 27mila profughi in pochi mesi.

Oggi però il termine “emergenza” non sembra più bastare, con i fenomeni degli ultimi anni destinati a diventare la realtà storica del presente e futuro prossimo.
È quindi ipocrita seguitare a definire “emergenza” quella che è una mutazione epocale dei problemi globali, restando ancorati alla flebile speranza che “prima o poi tutto passerà”.
Se analizzati in profondità, i due fenomeni sono correlati e collegati, dato che impoverire, depredare, distruggere un territorio (vedi la Libia), significa molto spesso peggiorare la situazione precedente. Questo ce lo devono spiegare i francesi che prima hanno bombardato i libici (2011), e oggi li respingono oltre le nostre frontiere.
La comunità internazionale ha agito così in Afganistan, Iraq e Siria e pare stia seguitando a farlo anche in Ucraina.

Peccato che ci si dimentichi in politica estera che “chi semina vento, raccoglie tempesta”.
Così che chi fa la guerra, poi ne raccoglie le conseguenze. Per non parlare dei tanti colpi di stato favoriti o supportati dall’Europa nel continente africano, che ha indebolito un territorio tre volte più esteso del Vecchio continente, capitalizzandone le risorse e impoverendo una popolazione destinata a raggiungere i due miliardi entro il 2050.

Fenomeni che nella loro evoluzione iniziale potevano definirsi “emergenza”. Oggi, per la loro rapidità ed estensione globale, sono i problemi del nostro futuro.
Nell’emergenza, il fattore intervento è tampone. In una situazione di stabilizzazione cronica dei problemi nostri e dei popoli vicini o lontani, dovremmo parlare e studiare di strategie planetarie.

La posta in gioco non è più e solo il singolo paese, ma l’intero pianeta.
Non ci sarà più un vincitore, ma se perdiamo la terra saremo tutti sconfitti. Ecco perché da questo punto di vista possiamo dirci tutti “profughi”, chiamati non a fuggire dai problemi, ma a risolverli pensando a “Un’unica terra. Un’unica vita”. Per tutti!

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