Chiesa e disabilità. Bill Gaventa: “Le comunità possono fare la differenza, puntare sulla spiritualità”

"La comunità di fede può essere sensibile ai bisogni delle persone disabili e delle loro famiglie, ma è anche sensibile ai loro punti di forza e doni”. Parla Bill Gaventa, tra i maggiori esperti di disabilità e spiritualità. Fondatore del Summer Institute on Theology and Disability e direttore della Collaborative on Faith and Disability, Gaventa terrà la lectio magistralis al convegno nazionale "Noi, non loro. Il progetto di vita" promosso dal Servizio nazionale per la pastorale delle persone con disabilità della Cei (Roma, 1-3 giugno)  

Chiesa e disabilità. Bill Gaventa: “Le comunità possono fare la differenza, puntare sulla spiritualità”

“Le comunità di fede possono fare la differenza. A fronte di numerosi pregiudizi e paure nei confronti delle persone con disabilità, la Chiesa può offrire uno spazio sicuro e accogliente, trasmettendo al resto della comunità il messaggio che le persone con disabilità meritano lo stesso rispetto e la stessa dignità di chiunque altro”. Bill Gaventa è uno dei maggiori esperti di disabilità e spiritualità. Fondatore del Summer Institute on Theology and Disability e direttore della Collaborative on Faith and Disability, Gaventa terrà la lectio magistralis al convegno nazionale “Noi, non loro. Il progetto di vita” promosso dal Servizio nazionale per la pastorale delle persone con disabilità della Cei (Roma, 1-3 giugno).

Quando si è avvicinato al tema della disabilità?
Finito il seminario, ho seguito un corso annuale di formazione pastorale clinica presso un ospedale della Carolina del Nord, dove mi fu data la possibilità di svolgere un breve tirocinio in una nuova clinica per famiglie con bambini disabili. Il ruolo del cappellano non era predefinito, pertanto dovetti iniziare a parlare con le famiglie mentre si trovavano lì, e ascoltare le loro esperienze di Chiesa e di fede.

La maggior parte delle testimonianze evidenziavano situazioni di indifferenza o di esclusione da parte delle loro comunità di fede. Questi racconti mi colpirono nel profondo e segnarono l’inizio del mio cammino nella pastorale delle persone con disabilità e delle loro famiglie, per favorire una maggiore accoglienza, inclusione e sostegno da parte delle comunità.

In questi anni si è fatta molta strada per una maggiore accoglienza e inclusione. Eppure spesso si è attenti ai bisogni delle persone con disabilità e delle famiglie, mentre il ruolo della spiritualità è sottovalutato…
Mi domando se la maggior parte delle volte le persone con disabilità non siano considerate persone che hanno bisogno di aiuto, preghiere e sostegno, piuttosto che credenti a loro volta, persone che desiderano partecipare e contribuire alla vita della Chiesa alla pari di altri. In altre parole, Gesù chiama anche loro a essere discepoli, non solo destinatari di assistenza. La disabilità ha altresì sollecitato domande di natura spirituale e teologica nella maggior parte dei fedeli, domande non facili da affrontare e a cui trovare una risposta. La maggior parte delle persone con disabilità che conosco, e le loro famiglie, non desiderano essere viste e trattate come “persone speciali”.

E cosa desiderano?
Vogliono sentirsi incluse, avere le stesse opportunità di imparare e di servire, poter dare e ricevere, ricoprire ruoli utili nei contesti religiosi, possibilmente con funzioni di responsabilità, e finanche come capi religiosi. In altre parole, le loro domande, necessità e desideri spirituali sono gli stessi di chiunque altro.

La comunità di fede può essere sensibile ai “bisogni delle persone disabili e delle loro famiglie”, ma è anche sensibile ai loro “punti di forza e doni”.

Dunque, le comunità di fede hanno un ruolo importante?
Il ruolo delle comunità dovrebbe rimanere lo stesso, sia che si tratti di persone con disabilità e delle loro famiglie, sia che si tratti di chiunque altro: offrire accoglienza, inclusione, insegnare, battezzare, sostenere, evangelizzare. La maggior parte delle comunità non si rendono conto che ciò che le persone con disabilità e le loro famiglie apprezzano di più è sentirsi inclusi e trattati come chiunque altro. Questo significa che

le comunità di fede possono davvero fare la differenza nelle loro vite.

A fronte di numerosi pregiudizi, paure e stigma sociale nei confronti delle persone con disabilità, la Chiesa può fare davvero la differenza offrendo uno spazio sicuro e accogliente, al contempo trasmettendo al resto della comunità il messaggio che le persone con disabilità meritano lo stesso rispetto e la stessa dignità di chiunque altro.

C’è anche un problema di solitudine…
Molte persone con disabilità hanno pochissimi amici al di fuori della famiglia e degli operatori del settore. La solitudine è un problema enorme. Esistono anche forme di aiuto concreto, ad esempio, luoghi di incontro per i gruppi che si occupano di disabilità, eventualmente sostenendo le famiglie per dare un po’ di tregua a chi se ne prende cura, e altre modalità concrete di sostegno da parte delle comunità religiose.

Perché il concetto di disabilità e quello di spiritualità sono vicini?
Quando si cerca di capire cosa sia e cosa significhi la disabilità, si finisce per scoprire che molte dimensioni della disabilità sono influenzate da atteggiamenti e convinzioni sociali e culturali che riguardano la disabilità e ciò che rappresenta, ovvero si entra nel mondo della spiritualità, dove le questioni relative al valore, alla fede e alle domande di senso sono di primaria importanza. Al contrario, se si parte dal tentativo di comprendere la spiritualità, ci si ritrova in situazioni in cui le questioni spirituali si fanno strada nella nostra consapevolezza, emergendo con maggiore intensità, ed è in quei momenti che ci sentiamo più vulnerabili, in cui percepiamo la nostra finitudine, le nostre limitazioni e molto altro ancora.

La morte, la sofferenza, le malattie, la guerra, la povertà, l’ingiustizia sono tutti contesti in cui le domande spirituali emergono in primo piano, dove ciò che è “normale” e “abituale” non basta. La disabilità è uno di questi.

Talvolta si tende a vedere la fede come una realtà che deve essere compresa intellettualmente. Dunque esclusa alle persone con disabilità intellettiva. È davvero così?
Assolutamente no. Non teniamo i bambini lontani dalla Chiesa perché non hanno la capacità cognitiva per capire l’oggetto e il significato dell’annuncio. La fede è più strettamente legata a una relazione autentica con Gesù e con Dio che alla capacità di comprensione teologica. Ciò che la Chiesa può fare è offrire un insegnamento conforme al livello di capacità di apprendimento della persona, per poi cercare di capire il significato che quest’ultima attribuisce all’andare in chiesa, a Dio e ad altro ancora. Questo può essere fatto con immagini, azioni, gesti. La classica domanda relativa alla fede come realtà compresa intellettualmente riguarda l’opportunità o meno di ricevere la Comunione da parte di persone con disabilità intellettive.

E, a chi si domanda “Capiscono cosa significa?”, che risponde?
La maggior parte delle persone non saprebbe dare una risposta teologica coerente a questa domanda. Da un sondaggio condotto negli Stati Uniti tra i credenti cattolici è emerso che oltre la metà ha un’interpretazione errata della dottrina cattolica.

Per definizione, il sacramento è racchiuso nella concezione di mistero, e la partecipazione all’Eucaristia porta alla comunione col Signore, è un atto di inclusione, afferma che siamo tutti membra dello stesso Corpo, e altro ancora.

Quindi, nessuna preclusione?
Molte persone con disabilità intellettive e dello sviluppo possono avere intuizioni straordinarie sulla fede se diamo loro l’opportunità di partecipare, dando per scontato che possano apprendere in base al loro specifico livello, se ascoltiamo le loro domande e se chiediamo loro perché, ad esempio, ritengono importante andare in chiesa. Nel mio lavoro in questo campo ho vissuto centinaia di momenti di rivelazione.

È il momento di puntare sulla spiritualità anche nell’ambito del progetto di vita?
Il settore sanitario e delle scienze umane dedica scarsa attenzione all’importanza della spiritualità, perdendo così una grande risorsa per trattare le persone in modo olistico. Questo è dovuto a diversi motivi, quali, ad esempio, il fatto di non avere una formazione che consenta di comprendere o chiedere informazioni sulla spiritualità, e ritenere che la spiritualità sia sinonimo di capacità cognitiva e quindi non accessibile, e sentire storie di maltrattamento delle persone con disabilità da parte delle comunità religiose. È ora di superare tutto questo e di collaborare tutti insieme.

Aiutando le persone con disabilità intellettiva e di sviluppo a gestire tutte i momenti della vita.
Dobbiamo sostenere le persone con disabilità intellettiva e di sviluppo, le loro famiglie e i loro amici nell’affrontare i momenti di perdita, lutto e morte. Come nel caso della fede, alcuni pensano che le persone con disabilità intellettive e dello sviluppo non siano in grado di comprendere la morte, come se qualcuno lo sapesse davvero; o che debbano essere protetti dal dolore della perdita e del lutto; eppure vivono in un mondo fatto di relazioni, dove la perdita e il lutto si verificano in continuazione, e devono essere coinvolti anche nei gesti e nei riti del cordoglio e del lutto. E a volte sono molto più abili di tutti noi.

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Fonte: Sir