“La chiesa aperta è un segno di speranza”. I Carmelitani a Bruxelles, tra emergenza-Covid, preghiere e carità

Padre Stefano Conotter è priore del convento carmelitano che si affaccia sulla Toison d’Or, importante arteria della capitale belga, città dai tratti europei segnata dalla pandemia. La comunità di frati svolge un apprezzato servizio liturgico e pastorale nel rispetto delle norme sanitarie precauzionali: durante il lockdown messe in streaming e accoglienza dei poveri del quartiere. "Per ripartire è necessario svolgere un lavoro di rilettura della crisi, come ci sta proponendo di fare Papa Francesco"

“La chiesa aperta è un segno di speranza”. I Carmelitani a Bruxelles, tra emergenza-Covid, preghiere e carità

“Durante il lockdown abbiamo compiuto passi di non ritorno”: padre Stefano Conotter è il priore del convento carmelitano che si affaccia sulla Toison d’Or, importante e centrale arteria di Bruxelles. Chiesa e monastero hanno una storia lunga secoli, che oggi prosegue con una piccola e vivace comunità di frati: oltre al priore, ci sono gli italiani padre Angelo e padre Alessandro, padre Jacky che viene dal Madagascar, uno studente ospite fisso, il malgascio Thairi, e il nuovo arrivo dall’Italia, padre Luca. Inoltre il convento ha da tempo aperto le porte ad alcuni senzatetto, che qui ricevono amicizia, ospitalità e cure.

Padre Stefano, partiamo dalla “clausura” imposta dal coronavirus, che in Belgio, Paese con poco più di 11 milioni di abitanti, ha finora causato quasi 10mila vittime. Come avete affrontato i mesi scorsi?
Anche la nostra comunità ha attraversato il periodo di lockdown con inaspettati cambiamenti di abitudine. La consueta attività liturgica e pastorale ha dovuto adeguarsi alle norme precauzionali per evitare i contagi, che qui sono stati davvero tanti e il numero dei morti lo conferma. Ognuno di noi in convento ha reagito in maniera differente: c’era chi seguiva con ansia ogni aggiornamento sul diffondersi del Covid, chi per la preoccupazione legata alle notizie che giungevano dai media si è un po’ ammutolito, chi cercava di ampliare i temi di conversazione. Abbiamo riflettuto attorno a un documento rivolto proprie alle comunità religiose su come affrontare l’isolamento: ci ha aiutato nei rapporti tra di noi e verso le persone che solitamente frequentano la nostra chiesa. Dalla metà di marzo ci siamo attrezzati per trasmettere la messa in streaming: ci ha consentito di tenere i legami con tante persone che hanno apprezzato questo servizio. Per noi è stato altrettanto utile, nel senso che abbiamo cercato di curare al meglio la liturgia, i canti, le omelie, accogliendo anche il contributo dei fedeli che ci mandavano i canti e le letture registrate oppure le preghiere dei fedeli, adattando il tutto alla celebrazione seguita su computer o smartphone. Innovazioni non da poco. Ecco perché dico che abbiamo compiuto passi di non ritorno.

Molti edifici di culto, in Belgio come in Italia e in tutta Europa, hanno chiuso i battenti per via delle misure restrittive anti-Covid. Invece la vostra chiesa è sempre rimasta aperta…
È stata una decisione impegnativa, perché si trattava di applicare le regole per evitare i contagi: mascherine, distanziamento delle sedie, sanificazione. Da questo punto di vista abbiamo preso esempio dalle misure introdotte in Italia, che ci sono apparse particolarmente efficaci. La chiesa aperta è un segno di speranza, anche se le persone che vi entravano per pregare erano poche, ma c’è sempre stata una presenza.

Mentre i poveri, che trovavano strade vuote e porte chiuse, vi si riparavano al caldo. Così abbiamo deciso di mettere a disposizione una toilette e di realizzare, in un corridoio laterale della chiesa, un piccolo angolo ristoro, per una minestra e un caffè caldo.

Così quello è diventato un luogo di accoglienza e di fraternità. Ci siamo resi conto di aver lavorato parecchio in quel periodo, eppure ritengo che non abbiamo sottratto tempo alla preghiera. È stato un modo rinnovato di vivere la fede.

E adesso? Pur rimanendo in vigore alcune misure per contrastare la pandemia, siete tornati a celebrare la messa con i fedeli, a confessare, a incontrare tante persone.
Sì, l’essere umano – lo sappiamo – è un essere sociale, ha bisogno di stare con gli altri. Vale anche per la comunità cristiana. Semmai abbiamo bisogno di riscoprire un po’ il senso dell’assemblea liturgica, del celebrare insieme il mistero. Nel frattempo,le confessioni stanno riprendendo e la sfida è cogliere che se il Padre ha fretta di perdonarci, anche quando non possiamo accostarci alla confessione sacramentale, nello stesso tempo ha legato il perdono alla mediazione della Chiesa e dei suoi ministri.

Per quanto riguarda la partecipazione alle funzioni, mi colpisce il fatto che parecchi genitori ci confidano che ora è difficile riportare i figli adolescenti a messa. Anche questa è una sfida educativa per motivare il senso del celebrare assieme come conseguenza dell’Incarnazione di Dio. Si tratta di aiutare a capire che la Grazia supera i mezzi sacramentali, ma nello stesso tempo questi sono l’umile strumento della via ordinaria con cui Dio ci raggiunge. È un’esperienza nuova che come cristiani stiamo facendo ed è importante coglierla come approfondimento della vita cristiana.

Qualche particolarità da raccontare?
Citerei il fatto che alcuni credenti hanno scoperto o riscoperto la comunione spirituale. Adesso la sfida è custodire questa scoperta anche nella Comunione sacramentale. Abbiamo anche raccolto osservazioni e critiche rispetto al fatto che la Chiesa è sembrata accettare una limitazione alla libertà di culto nel momento in cui si applicavano le opportune regole precauzionali. Qualcuno mi ha esplicitamente detto che non avrebbe ricevuto l’Eucarestia in mano, oppure che rifiutava un celebrante con la mascherina. Ma, adagio adagio, questi problemi si stanno superando.

Attorno alla vostra chiesa ci sono sempre mendicanti che forse sanno di trovare una buona parola, un sorriso, un piccolo sostegno. A suo avviso, la crisi economica e sociale innescata dalla pandemia sta colpendo anche Bruxelles?
Poveri ce ne sono sempre stati e continuano ad esserci. Temo, anzi, che la crisi porterà ulteriore indigenza e solitudini.

Per la comunità cristiana è necessario aprire le porte e il cuore, tendere la mano a chi è nel bisogno come insegna e chiede il Vangelo di Gesù.

Occorre fra l’altro rilevare che stare chiusi in casa per lungo tempo ha segnato molti ragazzi e giovani, privati delle amicizie e della scuola. Anche tra gli adulti emergono povertà materiali – con la perdita del lavoro –, psicologiche, relazionali. Credo che sia importante, per ripartire, svolgere un lavoro di rilettura della crisi, come ci sta proponendo di fare Francesco nelle catechesi del mercoledì. In questo senso abbiamo una bussola per ripartire e si tratta della Laudato si’.

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Fonte: Sir