La tenda di Dio. Da sempre la tenda è simbolo di riparo e sicurezza, del qui e ora

Nel giro di poche ore le strade e le piazze si sono svuotate e sono spuntate tante tende: le tende dell'emergenza.

La tenda di Dio. Da sempre la tenda è simbolo di riparo e sicurezza, del qui e ora

Immerso in un silenzio surreale, il paesaggio dei nostri paesi e delle nostre città è improvvisamente cambiato. Sembra essere stato inghiottito anche lui in una bolla, dove si vive sospesi, in cerca di riferimenti che per ora non ci sono più.

Nel giro di poche ore le strade e le piazze si sono svuotate e sono spuntate tante tende. Bianche, blu, azzurre e marroni. Montate in poche ore – spesso di sera alla luce delle fotoelettriche – da braccia forti e cuori generosi. Sono le tende dell’emergenza. Eravamo abituati a vederle comparire nelle zone terremotate, per dare accoglienza, riparo e sicurezza a chi un tetto se l’era visto portare via in una manciata di secondi dai sussulti della terra.

Oggi quelle tende sono spuntate davanti ai nostri ospedali. Le ritroviamo postate in questi giorni in decine e decine di pagine Facebook. Da nord a sud Italia, isole comprese. Chi opera in campo medico-sanitario le identifica come “pre-triage”. Per il comune cittadino sono il luogo in cui questo nemico invisibile viene smascherato. È la linea del “fronte”, dove un esercito che ha come armatura tute monouso, guanti in lattice, mascherine, cuffie e occhiali protettivi, mette a nudo il nemico usando un paio di lunghi cotton fioc e un microscopio.

La prima volta che ho visto un esercito di questo tipo era il 1982, in un cinema della mia città, dove ero andata a vedere E.T. di Steven Spielberg. Ma quello che noi stiamo vivendo oggi non è un film che possiamo confinare in fondo al tubo catodico delle nostre vite.

Anche quelle tende sono cambiate nel nostro modo di vivere il quotidiano. Da riparo contro insicurezze della natura sono diventate il luogo dove la paura si scontra con il coraggio, in un tempo precario, dove tutto è stato rinviato “a data da destinarsi”.

Da sempre la tenda è simbolo di riparo e sicurezza. I popoli nomadi lo sanno bene. La tenda è il luogo del presente, del qui e ora. È quello spazio che ci riporta alla concretezza delle cose, all’essenziale. Ha bisogno di essere ancorata bene ed è al tempo stesso una struttura agile, capace di rispondere alle esigenze dell’oggi.

Nella Bibbia della tenda si parla più di trecento volte. È segno di ricchezza abitativa per quel pastore che è costretto a spostarsi per portare il gregge al pascolo. Pastori come Abramo, Isacco e Giacobbe, che sotto le tende si riparano dal caldo e dal freddo.

Nella Scrittura la tenda è anche luogo d’incontro e d’accoglienza, per i viandanti. Come non ricordare quella di Abramo alle Querce di Mamre (Gen 18,1-2). Anche Dio sceglie di abitare in una tenda. Egli vuole essere presente in mezzo al suo popolo, camminare con lui. Ecco che allora l’arca dell’alleanza è custodita sotto una tenda (Es 25,1.8-9), che si sposta con il popolo, scandendone le tappe del suo cammino.

Incontriamo una tenda anche nel prologo del vangelo di Giovanni: Kai o logos sarx egèneto kai eskènosen en emìn (Gv 1,14). La traduzione in italiano dice “e il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. Il verbo greco eskènosen, aoristo del verbo skenoo (da skenè, tenda) significa letteralmente “pose la sua tenda in mezzo a noi”.

Oggi Dio pone la sua tenda davanti ai nostri ospedali, è lì in prima linea a fare pre-triage, ad accogliere chi è stato colpito da questo nemico invisibile, ad allungare i tamponi per i test, a mettere a fuoco i vetrini nel microscopio, ad attaccare le flebo, a monitorare i respiratori. È lì a cambiare i letti e pulire stanze e corridoi dal rischio del contagio e dalla paura. È presente notte e giorno a sostenere e incoraggiare chi da giorni nelle terapie intensive dei nostri ospedali sta affrontando estenuanti turni di lavoro mettendo a rischio anche la propria incolumità. È lì a donare un sorriso e una carezza, a tenere stretta la mano di chi non ce la fa. E non molla la presa nemmeno dopo l’ultimo respiro.

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)