Missione. Padre Testa: “Un cammino insieme per renderci più umani”

Il missionario della Consolata ha attraversato numerose vicende dei Paesi dell'America latina. "In Argentina - spiega - ho passato cinque anni in prigione, accusato di sovversione. In realtà predicavo il Vangelo e curavo pastoralmente una comunità andando a trovare le persone, le famiglie, anche quelle che vivevano il dramma di un familiare desaparecido"

Missione. Padre Testa: “Un cammino insieme per renderci più umani”

Padre Gianfranco Testa è un missionario della Consolata che ha lavorato in Argentina ai tempi della dittatura, in Nicaragua durante la rivoluzione sandinista e in Colombia. Ha sviluppato una ricca riflessione sul perdono contenuta in due libri: “Il perdono è un bel guadagno” e anche “E poi, soltanto un uomo”.

Padre Testa, parliamo del perdono. Lei ha anche scritto dei libri…
Per me è stata una scoperta capire il perdono come una realtà a nostro favore, come un regalo a noi stessi. Di fronte ad un fatto gravissimo, (l’uccisione di un figlio, penso alla mia esperienza in Nicaragua o un Colombia; ma penso anche alla sparizione di parenti, i desaparecidos in Argentina) abbiamo tutto il diritto di arrabbiarci, anche se vivere di rabbia non risolve nulla.

Il perdono è innanzitutto superare quella rabbia che abbiamo dentro e continuare ad avere amore per la vita, vedere che si può vivere nonostante tutto, vivere anche per chi non c’è più. Chi ha fatto del male a mio figlio fa male anche a me finché mi porto dentro la rabbia.

Il perdono – lei dice – è un guadagno. Perché?
Perché quando riesco a dominare la rabbia attraverso il perdono, io mi libero. Il perdono allora diventa un guadagno, perché mi fa stare bene. È difficile, non si fa in pochi giorni, ci vuole tempo (mesi, anni) però è fondamentale sapere che la meta è quella, altrimenti ci frustiamo e facciamo soltanto male a noi stessi. Altrimenti il male che abbiamo subito finisce per toglierci spazi di libertà. È una decisione importante, quella del perdono.

Diversa è la riconciliazione…
Certo, non bisogna confondere il perdono con la riconciliazione.

Il perdono è una scelta personale, la riconciliazione è un ponte verso chi ci ha fatto del male.

E su questo ponte bisogna camminare tutti e due. Altrimenti meglio accontentarci del perdono che è già un grande guadagno. Il ponte della riconciliazione ha dei pilastri che lo sostengono, che sono la memoria, la verità, la giustizia e il patto verso il futuro. Qual è il patto migliore? È quello possibile! Inutile insiste con le meraviglie della piena comunione se non è possibile.

Il perdono e la riconciliazione sono cammini missionari?
Penso di sì, la missione non è tanto questione di convertire perché qualcuno lasci la sua fede e venga alla mia.

Oggi la missione è un cammino insieme per renderci più umani, più sinceri, più veri, più amici della giustizia, della verità, della relazione con l’altro.

La missione è aiutare prima di tutto me stesso ad acquistare un senso di umanità, essere capaci di vivere in questo mondo come “fratelli tutti” nonostante le differenze. Riuscire a vivere il perdono, ricostruire relazioni, la capacità di guardarsi in faccia con fiducia, non diventare a priori nemici degli altri, coltivare un senso di fiducia nell’altro… Questo è il Regno di Dio, questo vuol dire essere testimoni e profeti.

Nel suo libro “E poi soltanto un uomo”, lei parla dei suoi anni passati in carcere in Argentina. Ci racconti di quella volta, sull’aereo…
In Argentina ho passato cinque anni in prigione, accusato di sovversione. In realtà predicavo il Vangelo e curavo pastoralmente una comunità andando a trovare le persone, le famiglie, anche quelle che vivevano il dramma di un familiare desaparecido. Questo non piaceva al regime. In quegli anni ci hanno cambiato carcere quattro volte e sempre ammanettati, bendati e spesso picchiati, seduti nella stiva degli Hercules. Una volta, mentre eravamo in volo, hanno iniziato ad aprire il portellone. Ho pensato: adesso ci buttano giù, l’avevano fatto già con migliaia e migliaia di persone. Invece poi improvvisamente hanno richiuso… Ci hanno fatto vivere un’emozione, diciamo così.

Paolo Annechini (*)

(*) redazione “Missio”

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Fonte: Sir