Salmo 91. Ciascuno di noi sa quante insidie la vita quotidiana riservi

L’uomo del salmo è molto consapevole del suo essere creatura, dei suoi limiti, della sua fragilità.

Salmo 91. Ciascuno di noi sa quante insidie la vita quotidiana riservi

Questa settimana il commento è dedicato al salmo 91, di cui la liturgia si serve per la recita della Compieta, prima di coricarsi. Ecco, infatti, fin dal primo verso il riferimento alla notte che assume i tratti di una notte non solo atmosferica, ma anche spirituale. “Chi abita al riparo dell’Altissimo passerà la notte all’ombra dell’Onnipotente” (v .1). C’è un abbandono in Dio che non è garanzia di non incorrere nei pericoli, ma promessa di poter percepire la compagnia del Signore nel tempo della prova. “Io dico al Signore: Mio rifugio e mia fortezza, mio Dio in cui confido” (v. 2). Egli ti libererà dal laccio del cacciatore, dalla peste che distrugge. Ti coprirà con le sue penne, sotto le sue ali troverai rifugio; la sua fedeltà ti sarà scudo e corazza. Non temerai il terrore della notte né la freccia che vola di giorno, la peste che vaga nelle tenebre, lo sterminio che devasta a mezzogiorno. Mille cadranno al tuo fianco e diecimila alla tua destra, ma nulla ti potrà colpire. Basterà che tu apra gli occhi e vedrai la ricompensa dei malvagi! (vv. 3-8). C’è sempre il rischio di interiorizzare queste parole come uno scaramantico rito apotropaico, ovvero, letteralmente, “allontana pericolo”, ma se cerchiamo di penetrarle più in profondità comprendiamo quel realismo che la Bibbia ci ha già offerto tante volte. Da dove viene questa apparente sicurezza del credente, che non deve mai confondersi con sicumera, o con quella ubris – come la chiamavano gli antichi greci – che spinge, per esempio, Prometeo a “rubare” il fuoco agli Dei? L’uomo del salmo è molto consapevole del suo essere creatura, dei suoi limiti, della sua fragilità, proprio come ogni uomo sulla terra e così, ovviamente, anche ogni cristiano. Ciascuno di noi sa quante insidie la vita quotidiana riservi: dalla tubatura rotta che questa mattina ha costretto il fiume di auto a guadare via Gregorio VII, fino alla tragedia indicibile di perdere una figlia, morta a 17 anni, per una malformazione cardiaca mai diagnosticata, nel letto della famiglia americana in cui era per alcuni mesi in vacanza studio. Il Male, anche quello più misteriosamente inaccettabile, è entrato nella nostra carne mortale e non possiamo vivere cercando di non pensarci, oppure sempre rannicchiati per parare il colpo che inevitabilmente prima o poi arriverà. Con quale animo, allora, anche come genitori, possiamo indirizzare i nostri figli, sulla strada della vita adulta? La via indicata dal salmo è sempre quella dell’abbandono fiducioso in un Padre che ci ama, nonostante l’esistenza del male e anzi, ancora di più ci è vicino quanto più siamo stati feriti e non solo dal male che è fuori di noi, ma dal nostro stesso peccato, quello che – come direbbe San Paolo – non vogliamo fare eppure continuamente rifacciamo. Indicano questo le metafore poetiche attinte dal mondo della caccia e della guerra, ma – ammettiamolo – anche noi che viviamo in città, non viviamo mai le nostre giornate come se un laccio di angoscia ci stringesse la gola, o come se una freccia ci perforasse lo stomaco, o una pestilenza avesse raso al suolo il luogo in cui siamo costretti ad andare a lavorare? Chiediamolo ai medici di questo nostro tempo, o ai farmacisti – forse l’unica categoria che vede aumentare i negozi per le vie delle città. Siamo malati, tutti, chi più chi meno. Stress, ansia, disturbi psichici e psicosomatici turbano sempre più persone e sempre più giovani. Ci pare ogni tanto che neppure l’infanzia dei nostri bambini possa essere ancora spensierata. “Sì, mio rifugio sei tu, o Signore! Tu hai fatto dell’Altissimo la tua dimora: non ti potrà colpire la sventura, nessun colpo cadrà sulla tua tenda. […]. Lo libererò, perché a me si è legato, lo porrò al sicuro, perché ha conosciuto il mio nome. (vv. 9-14). Il salmo nella sua dimensione poetica ribadisce i concetti già espressi, ma li connota questa volta di un rapporto sempre più personale. Dio è geloso della sua creatura, si compiace (pur non avendone bisogno Lui che è Dio!) che noi si conosca il suo nome e lo si invochi. Del resto, non fa proprio così anche un bambino? Si possono contare le volte nell’infanzia di un uomo in cui questi abbia detto “papà!” per chiedergli aiuto, per farsi dare la mano o anche solo per attirare la sua attenzione? Noi, tutti, nessuno escluso, siamo fatti per essere amati e solo nella misura in cui, per Grazia, sperimentiamo l’amore di chi ci ha generato, prima nella carne, i nostri genitori e poi con il pensiero, Dio stesso, per mezzo del Battesimo, solo grazie a questo amore che ci ha dato la vita e l’ha alimentata, possiamo balbettare e poi sempre più pronunciare il nostro amore per il prossimo. In questo scambio c’è l’origine di tutto. L’uomo è culmine di quella sovrabbondanza d’amore che in principio Dio ha compiuto con la creazione, come proclamano le letture di oggi. “Mi invocherà e io gli darò risposta; nell’angoscia io sarò con lui, lo libererò e lo renderò glorioso. Lo sazierò di lunghi giorni e gli farò vedere la mia salvezza”. Ecco ancora la promessa, quella promessa che è al contempo dono e pure nostra conquista: se ci lasciamo “liberare” dal Signore, egli sarà con noi nell’angoscia e ci mostrerà la Sua gloria.

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Fonte: Sir