Ogni mattino, quando mi alzo, Signore, riprendo a respirare e ti dico grazie di avermi fatto missionario di un popolo che cammina. Perché vivendo in emigrazione mi hai insegnato ad avere compassione di uomini, di donne, di intere comunità che emigrano con i loro piedi, con la loro testa e il loro cuore, e con tutti i drammi che li inseguono ovunque, con una fede e un coraggio a volte ben più grandi dei miei.
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«Ti benedica il Signore e ti custodisca». «Maria da parte sua custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore». Il verbo custodire sembra fare da filigrana alla parola di Dio in questo primo giorno dell’anno. Custodire è uno dei verbi che nella bibbia raccontano il rapporto di Dio con l’uomo. Custodire è voler bene e prendersi cura. Custodire è proteggere ed essere attenti alle necessità dell’altro. Custodire è essere responsabili dei nostri fratelli.
Qualche anno fa, un amico libico mi ha parlato del deserto. Ricordo bene il suo racconto, mi aveva descritto il deserto come un luogo e un’esperienza che coinvolgono nell’insieme l’essere umano: dai pensieri, che si espandono nel silenzio più totale, al corpo, che si fa sentire in ogni sua parte per lo stress cui è sottoposto. Il mio amico non è nato nel deserto, né è per lui un ambiente familiare, avendo vissuto la maggior parte della sua vita nella capitale. Quello che al tempo mi aveva colpito era che, nonostante ciò, lo riconoscesse come luogo proprio: per lui il deserto era lo spazio dove ritrovare la pace e una dimensione profonda di preghiera.
Alan Clements: Ha mai parlato con i soldati a guardia della sua casa? Sono stati amichevoli? Aung San Suu Kyi: Certo che ho parlato con loro. Sono sempre stati molto educati e alcuni persino gentili. Alan Clements: In uno dei nostri incontri precedenti, lei ha detto: «Non ho mai imparato a odiare i miei carcerieri, quindi non li temo». La consapevolezza di non odiarli da cosa è derivata? Aung San Suu Kyi: Credo che in parte sia dovuto anche questo alla mia educazione. Forse le ho già detto che mia madre non mi insegnò mai a odiare neppure gli assassini di mio padre.
I bambini hanno un ruolo importante nella mia vita. Giocare con loro e vederli crescere mi ha permesso di prendere alcune decisioni che mi rendono quella che sono oggi. Alcuni anni fa stavo attraversando un periodo faticoso, sentivo che gli studi che avevo intrapreso, per quanto mi piacessero, non erano adatti a me e al mio carattere. Ho avuto la fortuna e l’occasione di partecipare a un weekend di spiritualità in cui ho potuto prendere del tempo per me stessa, fermarmi e pensare a cosa davvero mi rendesse felice e la risposta sono stati i volti dei bambini di cui ero educatrice.
«Rancore e ira sono cose orribili», dice il Siracide. E infatti, chi può dire di essere felice quando ne è preda? Ebbene, la soluzione che ci propone la bibbia è il perdono. Ma siamo capaci di perdonare? Quando al catechismo ci insegnavano a perdonare non sembrava una cosa poi così difficile: bastava dimenticare! Da bambini ci si dimentica il motivo per cui si litiga e via, tutto come prima. Ma quando si cresce? Quando la persona che ci ferisce è importante per noi e ha tradito la nostra fiducia?
Che cosa vuol dire «morire per produrre frutto»? Perché amare la propria vita significa perderla? E, al contrario, odiarla, in questo mondo, significa conservarla per la vita eterna? E che cos’è, questa vita eterna per la quale dovrei odiare la mia vita, l’unica che conosca? Quest’estate ho grandi progetti: un viaggio sempre rimandato, per diversi motivi.
Travestita da povera, avvolta in stracci, mano tesa, aspettavo i ragazzi della caccia al tesoro. Ho pensato: se non fosse un gioco? Se davvero la mia condizione fosse questa? Ma lo è, quando prego: mendicante di vita, di salute, di gioia, di pace nel cuore, tendo le mani verso te, Signore.
In questo periodo in cui si viene a conoscenza di tutto e di tutti in pochi minuti se non addirittura quasi nello stesso momento in cui succedono le cose, verrebbe quasi da dire che il mondo poliglotta è nelle nostre case, nei nostri pensieri. Dalle nostre comode case però non è neanche necessario conoscere una lingua diversa, tutto viene tradotto simultaneamente o quasi. Le immagini sono così reali che le parole diventano un accessorio. Io insegno inglese alla scuola primaria e so quanto è difficile impadronirsi di una lingua diversa da quella materna.
Ricordo mia figlia da piccola, una domenica in chiesa, che mi dice: «Mamma, ma dov’è Dio? Se fosse qui dovrei vederlo! Dov’è? Dov’è?» e intanto con le mani stringe l’aria quasi volesse acchiapparlo questo Dio invisibile e misterioso. A volte come i bambini, e ancor più come gli adolescenti, anche da adulti ci perdiamo in discussioni filosofiche su Dio, la sua esistenza, la sua presenza.
Gesù ascolta la parola che Dio gli rivolge e la incarna dentro gli spaccati più vari dell’umano. Nel battesimo si è mescolato con un’umanità piagata e ferita, nelle sue giornate ha continuato a frequentare e intrecciare le storie di vite spezzate nei loro affetti, sporcate dai pregiudizi dei benpensanti, puzzolenti per la lebbra dell’esclusione e dell’emarginazione, indurite da un’esteriorità a scapito dell’essenziale e dell’interiorità. Gesù ha “fatto” la parola di Dio, l’ha attualizzata nei gesti della vicinanza, dell’accompagnamento, dell’accoglienza, dell’incontro, della condivisione.
Mi capita da molti anni: ogni volta che ascolto questa storia raccontata da Gesù mi emoziono fortemente! Questo padre è davvero oltre ogni previsione e oltre ogni esperienza: per quanto bello e ricco sia il mio vissuto di madre e di figlia, non sarei mai riuscita a immaginare tanto.
Due persone anziane al tempio e due genitori in cammino verso Gerusalemme. Al centro della scena Gesù e tutti, mossi e ispirati dallo Spirito, al tempio lo attendono, ne parlano bene e ringraziano Dio per il dono che è questo bambino. In questo vangelo sono rappresentate tutte le generazioni, ciascuna con ruoli diversi. Di Simeone mi piacerebbe avere la speranza, la capacità di fidarsi, la serenità nei confronti della morte, che pure egli attende, ma verso la quale mostra una libertà piena, nel totale abbandono alla volontà di Dio.
Caspita, già pensare a quella ragazzina chiamata a essere la mamma di Gesù, di colui che è «nato da donna», c’è di che «far tremare le vene e i polsi», ma addirittura immaginare che sia la madre di Dio, questo è davvero un bel salto nel vuoto chiesto alla mia ragione, al mio senso pratico, alla mia esigenza di spiegare il come e il quando.
Il Natale di Gesù è la storia di un Dio che lascia il cielo e inizia la sua nuova vita sulla terra. Il Natale di Lazzaro, il povero del vangelo secondo Luca, va nel senso opposto: è la storia di un povero che lascia la terra e inizia la sua nuova vita in cielo. La vita di Gesù è stata vissuta tutta ai margini: una stalla, una periferia da miseria, emigrato in Egitto, rifiutato dal potere di Gerusalemme e ucciso dal potere di Roma.
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