Adios Ecuador. I missionari fidei donum padovani lasceranno l’Ecuador

L'annuncio. Il vescovo Claudio ha comunicato che la collaborazione con le Chiese del Paese latinoamericano si concluderà nella primavera del 2021. Si chiudono così 63 anni di fede e di vita condivisa che chiedono di guardare con coraggio al futuro. Poveri, comunità, fraternità sono tre parole chiave della presenza padovana, dall'Amazzonia alle Ande fino all'oceano 

Adios Ecuador. I missionari fidei donum padovani lasceranno l’Ecuador

I missionari fidei donum padovani lasceranno l’Ecuador. Dopo l’annuncio del vescovo Claudio alla festa del clero del 18 giugno, in onore di san Gregorio Barbarigo, si sono aperti lunghi mesi di saluti, abbracci, addii per don Saverio Turato, don Mattia Bezze e Francesca e Alessandro Brunone. Gli ultimi volti della nostra Chiesa locale che gli ecuatoriani vedranno sono i loro, impegnati in questi ultimi anni a Duràn, periferia della metropoli Guayaquill, sull’oceano Pacifico.

«In questi giorni stiamo comunicando la notizia della futura partenza alla nostra gente – scrivono - A causa del distanziamento per la pandemia siamo costretti a farlo “a distanza” o via internet e vediamo, seppur attraverso i filtri dello schermo del computer, gli occhi lucidi di chi non ci vuole mollare. Gli occhi, lo sguardo, che talvolta in questo periodo della pandemia sono l’unica parte scoperta del viso, li contempliamo come la trasparenza delle emozioni e l’obiettivo dell’anima che immortala ciò che vale veramente nella vita».

Ma dire Ecuador, per la Chiesa di Padova, significa scorrere un’intera pagina di storia. Parliamo di 63 anni di presenza costante, di oltre sessanta tra preti e laici in servizio, dalla foresta amazzonica del Napo alle Ande del Carchi, dalle sponde oceaniche di Esmeraldas fino alle periferie nord della capitale Quito per chiudere appunto a Guayaquill, nella neonata diocesi di San Jacinto. È una storia di amore dato e ricevuto a ben sei Chiese locali (Diocesi o Vicariati apostolici) e soprattutto a genti tanto diverse (indio, afrodiscendenti, ispanici) di cui i missionari si sono messi a servizio dal 1957 a oggi.

Ci sono stati inizi, partenze, nuovi inizi, idee diverse di missione, nate tanto dai differenti contesti di azione, quanto dalla maturazione del pensiero teologico a mano a mano che la spinta del Concilio Vaticano II si sedimentava nel vissuto della Chiesa universale. Proprio nei mesi in cui papa Pio XII firmava l’enciclica Fidei donum che invitava le singole Diocesi alla missione ad gentes, Padova era già in azione su impulso del vescovo Girolamo Bortignon, e il campo d’azione era proprio l’Ecuador. E qui Padova ha anche perso due figli, due preti, le prime vite donate per la missione. Nell’arco di poco più di un anno, tra il 1998 e il 1999: don Luigi Vaccari, proprio il 18 giugno, in un incidente di moto e don Evaristo Mercurio, travolto dal fango durante una piena, mentre tornava da una celebrazione il mercoledì santo.

Raccontare tutto questo è un’impresa titanica, che nei prossimi mesi la Chiesa di Padova, a partire dal Centro missionario diocesano, tenterà di affrontare, per riflettere sui molti frutti maturati nel lungo cammino. Per il momento, a tentare una sintesi di ciò che è stata la missione padovana in Ecuador sono proprio i quattro missionari presenti in loco. «Nel lungo scorrere della cooperazione – scrivono don Saverio, don Mattia, Francesca e Alessandro – possiamo sintetizzare l’operato in tre parole: poveri, comunità e fraternità. Sono queste le coordinate che fanno la missione e che fondano la Chiesa, perché come ci ricorda papa Francesco “è la missione che fa la Chiesa”. I poveri sono i nostri amici nel peregrinare in questa vita alla ricerca del buon pane e dell’acqua fresca che è Cristo. Costruendo la comunità in cui tessere le relazioni tra le persone scopriamo il volto di Cristo. La fraternità tra i missionari (preti, laici e suore) è lo stile che caratterizza la vita del discepolo, andando oltre le forme di egoismo. E poi chissà quanta altra bellezza avrà sperimentato ogni missionario, ogni persona, ogni diocesi e parrocchia che si è lasciato coinvolgere dalla Pentecoste della condivisione della fede!».

Dopo i primi pionieri inviati tra gli indios del Napo a dorso di cavallo, con il machete alla cintura per farsi largo in foresta, negli anni Sessanta si apre il grande capitolo della missione nella Sierra, sulle Ande dell’Ecuador. Tra gli episodi più significativi, l’apertura del seminario di Tulcan. Don Cornelio Boesso, oggi collaboratore a Cervarese, Fossona e Montemerlo, ci lavora dal 1976 al 1979. «Toccò a me perché prima di partire ero stato vicerettore del Maggiore, con don Mario Morellato – racconta – Fu un inizio molto laborioso, non c’erano ambienti se non le vecchie case in terra pestata della parrocchia di Cristo Rey. Nel novembre del ‘79 iniziammo le lezioni al Minore con una trentina di ragazzi, nel frattempo progettammo il Maggiore con l’architetto Toniolo di Piovene e alcuni ingegneri locali. Rimasi fino all’ordinazione del primo prete, don Josè Anibal Diaz Solano. Ma molti ragazzi del Minore diventarono professionisti e docenti: due anni fa ho incontrato alcuni di loro e mi hanno ringraziato per tutto il lavoro che abbiamo condiviso nella costruzione del seminario, lì hanno capito che nulla viene da solo, occorre conquistarsi tutto». Da allora sono circa quaranta i preti ordinati, i primi in un contesto del tutto vicino alla gente che sarebbero andati a servire: in seminario c’erano mucche, maiali. Proprio come nei villaggi vicini.

Negli anni Settanta si apre anche il capitolo Esmeraldas, vicariato apostolico sulle calde rive dell’oceano, un ambiente del tutto diverso da quello andino, con una popolazione nera, discendente degli schiavi africani portati dai colonizzatori. Qui Angelo Zambon arriva nel 1980, inviato da mons. Bortignon. La sua è un’azione fortissima, specie in campo sociale, come responsabile della pastorale sociale e del lavoro, accanto ai migranti e alle famiglie dei desaparecidos, nell'impegno per i diritti umani. «L’allora vescovo Bartolucci mi nominò segretario dell’Associazione Padri famiglia Esmeraldas, un sindacato di genitori che difendevano il diritto dei figli all’educazione. Denunciavamo i maestri assenteisti per nome e cognome, abbiamo subito minacce, ma questi contadini si muovevano nel rispetto della legge che avevano imparato a memoria. Forti di questo lottavano per i loro diritti». Angelo, in Ecuador per 17 anni, era attivo anche nelle carceri e non solo: «Attraverso la radio Antenna libre abbiamo promosso programmi di alfabetizzazione, che poi andavamo a verificare ogni mese di persona. Vedere i poveri imparare a leggere era un’enorme soddisfazione».
Il 1991, sul fronte della missione dei laici è un anno cardine. Arrivano i giovani coniugi Marta Michelotto e Alessandro Pizzati con don Giorgio De Checchi e poi Novella Sacchetto e Maurizio Fanton con don Attilio De Battisti. Padova si apre alla grande periferia di Quito, a Carcelen e Carapungo nasce il Progetto laici: «La vera novità – spiega Marta Michelotto – non era la presenza dei laici, ma la corresponsabilità e l’amicizia tra preti e laici in nome dell’unico mandato che ci viene dal battesimo a servizio della missione. Alla base c’era la visione conciliare del vescovo Filippo Franceschi che l’Azione cattolica metteva in pratica nella quotidianità. Sono stati anni di grandi progettualità sul versante della promozione umana grazie all’associazione Asa e su quello della pastorale».

1957, tre pionieri aprono la strada

Don Vincenzo Barison, don Francesco Montemezzo (oggi in Brasile) e don Tarcisio Marin (oggi comboniano). Sono questi i nomi dei primi preti inviati in Ecuador nel 1957 dal vescovo Girolamo Bortignon al seguito dei religiosi Giuseppini del Murialdo. La loro destinazione è Tena, nella regione amazzonica del Napo. Da pionieri in foresta con gli indios, hanno aperto la via a oltre sessanta missionari padovani.

Il Progetto laici, amicizia e corresponsabilità

Il Progetto laici in Ecuador nasce nel 1990 quando mons. Mattiazzo convoca i giovani sposi Marta Michelotto e Alessandro Pizzati e gli comunica la sua intenzione di inviarli in missione. «Inizia un anno di preparazione in cui io e mio marito coinvolgiamo le associazioni di cui facciamo parte, in particolare l’Ac e le Acli – racconta Michelotto – Una volta arrivati abbiamo iniziato a sviluppare una missione non di primo annuncio, ma di costruzione di una comunità di fede e di vita e proprio per questo era stata scelta la periferia della capitale, allora nel pieno dei processi di urbanizzazione. Fummo preceduti dall’invio di don Luigi Vaccari e don Valentino Sguotti. E proprio la tragica morte di don Luigi segnò molto quegli anni. Non scorderò mai l’arrivo immediato di don Ruggero Ruvoletto, allora direttore dell’ufficio missionario: volle andare nella camera di don Luigi, pregò e indossò i suoi sandali. Un momento fortemente simbolico, specie pensando a quanto sarebbe avvenuto a Manaus undici anni dopo».

La periferia di Duràn, ultimo capitolo di una lunga storia

La Diocesi di San Jacinto, suffraganea di Guayaquill, è l’ultimo approdo della missione padovana in Ecuador. Già dall’avvio, nel 2013, la decisione di rimanere per un tempo limitato per valutare poi altre destinazioni. Al vescovo Anibal Nieto Guerra fin dapprincipio è stata data disponibilità di andare dove nessun altro voleva andare e la scelta è caduta nella zona nord di Duran, città di mezzo milione di abitanti, il cui sviluppo è esploso dal 2000 a oggi e nemmeno i servizi basilari sono garantiti alla popolazione. I missionari padovani sono partiti dalla parrocchia di Nuestra Señora de los Àngeles, per poi fondare la comunità Nuestra Señora del Perpetuo Socorro (Arbolito) e infine accogliere anche la cura della parrocchia di San Francisco de Asìs. La pastorale non si limita al quartiere ma si espande anche ai dintorni nella periferia.

San Isidro (Tulcan) 1974: laici ecuatoriani già protagonisti

Il rientro di don Saverio Turato, don Mattia Bezze, Francesca e Alessandro Brunone è previsto per la prossima primavera, mentre don Daniele Favarin rimarrà a Esmeraldas. «Noi missionari, gli ultimi di questo lungo percorso – scrivono i rientranti – sentiamo la forza di chi ci ha preceduto. Ci sentiamo come i fiumi della costa ecuadoriana che raccolgono gli esuberanti corsi d’acqua che scendono dalla Sierra». I nomi e i volti da ricordare sono moltissimi. Tra questi c’è quello di don Giorgio Friso che già nella parrocchia di San Isidro a Tulcan a metà anni Settanta aveva dato vita agli Animatori della fede, laici formati che animavano le comunità andine dove i sacerdoti potevano arrivare non più di una volta al mese. Fin da allora, l’esperienza della Chiesa in Ecuador, come nel resto dell’America latina, ha registrato il protagonismo dei laici.

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