Bilancio della diocesi. Il futuro? Più piccoli e più autentici

Rapporto annuale 2018. Bilancio dell’ente Diocesi certificato e un piano di analisi e valorizzazione del patrimonio immobiliare le due principali novità

Bilancio della diocesi. Il futuro? Più piccoli e più autentici

Che cosa farò… il rovello dell’amministratore al centro della parabola proposta dal vangelo di domenica scorsa diventa titolo e cuore del Rapporto annuale 2018 della Diocesi di Padova. Oggi come allora, c’è da affrontare un futuro incerto, ripensando abitudini consolidate, mettendo in gioco intraprendenza e creatività. Diversamente da allora, non c’è in gioco la sicurezza individuale ma un patrimonio che ci è stato affidato da chi è venuto prima e che siamo chiamati ad amministrare pensando sì a chi verrà dopo di noi ma senza indulgere nella pura conservazione. Perché i beni della Chiesa – lo ricorderà il vicario episcopale don Gabriele Pipinato chiudendo la mattinata di presentazione del bilancio diocesano all’Opsa – non sono (solo) un capitale da proteggere e far fruttare: «sono beni strumentali, che servono a compiere la nostra missione e che abbiamo sempre la responsabilità di trasformare, di renderli fruibili per i tempi che stiamo vivendo».

Guardare all’economia con occhi nuovi
Quelli in cui siamo immersi non sono tempi facili per chi quei beni è chiamato ad amministrarli. Non lo sono – e a ben pensarci è un bene – perché la sensibilità dell’opinione pubblica è maturata. Legalità, trasparenza, rendicontazione sono sempre più valori e prassi condivise. E solo dar conto pubblicamente di come si usano i soldi ricevuti – chiarisce bene il vescovo Claudio nell’aprire la mattinata – e addirittura sottoporsi alla verifica di una società di certificazione «può far nascere o riconfermare quel credito, stima e fiducia di cui la Chiesa deve potersi rivestire. Qui non è in gioco la perizia amministrativa ma qualcosa di molto più grande: è in gioco la credibilità della nostra pratica evangelica».
Ma pensare che dietro tanto sforzo ci sia il bisogno di “convincere” i cittadini a firmare per l’8 per mille alla Chiesa cattolica o a sostenere la Diocesi con le loro offerte, significherebbe non aver compreso la profonda riflessione che sorregge un lavoro giunto ormai al suo quarto anno. Il fatto è – ci ricorda ancora il vescovo – che «la vita economica non è neutra, ma dice in che cosa crediamo, qual è il nostro vero bene. E la verifica a cui siamo chiamati non è quella di un professionista che certifica i nostri bilanci, ma la coerenza col Vangelo della misericordia».
Vale per la diocesi e vale per le parrocchie, vale per l’economo diocesano e vale per quanti nelle comunità si impegnano nella gestione dei beni. Persone generose e competenti, a cui il vescovo chiede lo sforzo di ricordare sempre che «c’è una funzione pedagogica a cui siamo chiamati, che è quella di educare a un uso cristiano del denaro. E per questa via farci testimoni del messaggio evangelico imparando anche a vivere e gestire i nostri beni in comunità, non come singoli individui. Perché l’offerta o il gesto che compiamo da soli ha certo un grande valore, ma quello che compiamo insieme alla comunità ha la forza di creare cultura, diventa scelta politica, costruisce una società più solidale».

Un quadro sempre più esaustivo
È questo lo scenario entro cui si situa un lavoro di ricognizione e verifica che ogni anno si fa più impegnativo, con l’obiettivo di offrire un quadro esaustivo e veritiero della Chiesa di Padova. Ecco che ai dati relativi all’ente Diocesi vero e proprio, si affiancano quelli degli altri enti riconducibili alla Diocesi e che svolgono funzioni di carattere diocesano. E ancora le parrocchie, con i rendiconti relativi al 2018 di ben 420 comunità, il Seminario, le società partecipate dalla Diocesi, l’Istituto diocesano sostentamento clero. Non solo: accanto alla certificazione, l’altra novità è la mappatura di tutti gli immobili della Diocesi e di 12 enti collegati (ne parliamo nell’articolo a fianco).

I dati in sintesi
Il Rapporto 2018 indica per l’ente Diocesi un disavanzo di 635 mila euro, con proventi pari a 9 milioni e 932 mila euro a fronte di 10 milioni e 568 mila euro di costi. Il patrimonio netto è di 30 milioni e 674 mila euro: la gran parte (21 milioni e 617 mila euro) è rappresentata dal Fondo di dotazione (fabbricati istituzionali non disponibili); poco meno di 6 milioni di euro è il valore del patrimonio vincolato (fabbricati istituzionali disponibili) mentre il patrimonio libero è di 3 milioni e 223 mila euro. I debiti verso fornitori, parrocchie, enti e per raccolte è di 6 milioni di euro. Il Rapporto propone anche un rendiconto di gestione suddiviso per aree di attività.

Guardare ai nostri beni con occhi nuovi
Numeri che, oltre a fotografare l’esistente, indicano una prospettiva, specialmente se letti insieme a quelli delle parrocchie e degli enti che alla Diocesi fanno riferimento. E la prospettiva è quella di un futuro in cui saremo più piccoli. Un futuro “scandaloso”, se misurato col metro di una società che vive nell’ossessione della crescita. Anche per questo, bisognerà allenarsi, metabolizzare il cambiamento, capire come viverlo senza subire come una mortificazione tante perdite che poco alla volta diventeranno inevitabili.
Ma volenti o nolenti è un futuro non troppo lontano. Anzi, sarebbe meglio iniziare a considerarlo il presente, se è vero – come racconta don Gabriele Pipinato – che nel 2018 «per la prima volta abbiamo preso la decisione di chiudere alcune chiese parrocchiali perché pericolanti». E chiudere una chiesa non è come chiudere una canonica, un patronato o una scuola materna, per quanto doloroso possa essere rinunciare a strutture che appartengono alla storia di una comunità.
Ma se “quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito”, dobbiamo dirigere bene lo sguardo. «Se una comunità è viva – ammonisce il vescovo Claudio – ha anche la forza di mantenere le sue strutture. Ma se una comunità di cristiani non c’è più, a cosa ci servono le strutture?».
E così la riflessione sui beni ci riporta al grande interrogativo che sta segnando il cammino della nostra Chiesa: come costruiamo oggi comunità vive, radicate nel territorio, più piccole magari ma riconoscibili per come si prega, ci si prende cura l’uno dell’altro, si guarda ai poveri con carità evangelica? Anche non avessero più una chiesa a tre navate e ricca di opere d’arte in cui riunirsi, sono loro il “bene” più prezioso che potremo consegnare a chi verrà dopo di noi. Su questo, non su altro, si gioca il futuro.

Gli immobili. Dalla mappatura alle decisioni

13 enti diocesani, un patrimonio immobiliare composto da 66 complessi per più di 300 unità catastali, 100 mila metri quadri di superficie e un valore stimato di 130 milioni di euro. Un tesoro, ma non nel senso che periodicamente rimbalza sulla grande stampa, magari in occasione delle ormai stantie polemiche sull’Ici/Imu non versata dalla Chiesa. Semmai un tesoro di storia, di generosità, di carità impiegata generazione dopo generazione a servizio della comunità.

Un tesoro che però, all’atto pratico, rende pochissimo e chiede piuttosto ingenti risorse per essere mantenuto. La mappatura del patrimonio immobiliare che appartiene a Diocesi, Antoniana srl, Associazione universale sant’Antonio, Casa del clero, Centro universitario, Collegio Gregorianum, Movimento apostolico diocesano, Opera diocesana adorazione perpetua, Opera Achille Grandi, Opera Casa famiglia, Opera Nostra Signora di Lourdes, Seminario vescovile, villa Immacolata), realizzata con la consulenza della società Sinloc, lascia poco spazio a interpretazioni disinvolte e chiama piuttosto a scelte coraggiose che non potranno essere procrastinate troppo a lungo.

Se si vanno a disaggregare i dati, infatti, il “tesoro” finisce per evaporare: 66 milioni e mezzo sono il valore degli edifici “istituzionali”, 25 provengono da quelli a uso residenziale, 12 dagli stabili a uso formativo e 9 e mezzo da quelli a uso ricettivo, mentre appena 8 milioni e 300 mila è il valore degli immobili a uso direzionale. Risultato? Nel 2018 i ricavi complessivi sono stati 2 milioni e 300 mila euro, a fronte di 1 milione e 600 mila euro di costi gestionali.
Ne avanzano 700 mila, ovvero quanto basta a un accantonamento minimo per il mantenimento di un patrimonio spesso antico e oneroso, senza alcuna disponibilità economica a sostegno delle attività pastorali. Non solo: gli interventi di manutenzione e di adeguamento normativo richiedono oggi l’impegno di 20 milioni di euro.

Se come si è visto gran parte degli immobili non danno reddito perché sono funzionali alla missione della Chiesa, dall’indagine emerge però anche altro: un sottoutilizzo di alcuni immobili e spazi, ad esempio, e casi di locazioni ed entrate sotto il livello di mercato. Una visione d’insieme aiuterà certamente a razionalizzare, ma non evade l’interrogativo che la stessa Cei propone oggi alle diocesi: tutto non si salverà. E allora bisognerà scegliere: cosa mantenere? Come mantenerlo? E, soprattutto, perché mantenerlo? Per rispondere servirà uno sguardo profetico, ma anche lo sforzo di “pensare insieme” alla risposta possibile e sostenerla in maniera convinta. Una cosa è certa: più si aspetta, più sarà difficile intervenire con efficacia.

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