Le parrocchie generano ancora alla fede? Sì, ma per (r)esistere deve trasformarsi. Risponde don Livio Tonello

Le parrocchie generano ancora alla fede? Don Livio Tonello reagisce all’approfondimento, che metteva al centro questa domanda, pubblicato sulla Difesa del 20 novembre

Le parrocchie generano ancora alla fede? Sì, ma per (r)esistere deve trasformarsi. Risponde don Livio Tonello

Un semplice apporto iniziale e generale alla riflessione in atto sulla parrocchia proposta dalla Difesa del popolo in questi mesi. Un contributo sulla parrocchia vista come istituzione e come soggetto ecclesiale composito. Sono due finora le domande evidenziate dai contributi stampati (16 ottobre e 20 novembre): se la parrocchia abbia ancora una funzione in ordine alla fede personale e se sia ancora in grado di generare la fede. È su quell’“ancora” che vorrei anzitutto porre l’attenzione. La parrocchia che conosciamo ha svolto per oltre quattro secoli la funzione di rappresentazione e di istituzione del soggetto Chiesa. Ora non sembra più in grado di assolvere tale compito. Ma è crisi o una fase di transizione? Propendo per quest’ultima ipotesi confermata dal fatto che la parrocchia non è mai stata uguale a se stessa nel corso dei due millenni. Dal Concilio di Trento in poi abbiamo vissuto una fase molto lunga di consolidamento di un modo territoriale e locale di essere Chiesa. Ma precedentemente si sono alternati volti ecclesiali identificati come “parrocchia” con caratteristiche e funzioni diverse (per esempio le pievi). Quindi, non ci stupiamo se siamo di fronte a un possibile cambiamento sia della forma istituzionale che delle finalità per le quali esiste. Papa Francesco spinge per una “conversione pastorale e missionaria” («Spero che tutte le comunità facciano in modo di porre in atto i mezzi necessari per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno», Evangelii Gaudium 25) e forse questa prospettiva ci spaventa perché non sappiamo cosa modificare e come farlo. Dobbiamo sfatare il mito della parrocchia come forma esaustiva di comunità cristiana e di responsabilità totale in ordine alla fede. Per esempio, sulla intonazione missionaria, dobbiamo constatare che la parrocchia che conosciamo non si è originariamente percepita come “missionaria”. Il Concilio di Trento le ha assegnato l’incombenza della conservazione della fede attraverso la residenzialità del parroco, la celebrazione dei sacramenti, la territorialità, l’attenzione ai singoli fedeli (cura animarum)... La situazione odierna di progressivo dissolvimento del cristianesimo sociologico le chiede di assumere altri compiti: primo annuncio, risveglio della fede, attenzione al sociale, valorizzazione della fede elementare... Ma l’attuale configurazione e la percezione di se stessa possono realizzare questo? Inoltre, la situazione di pluralità nel modo di esprimere la fede, la ricerca di una spiritualità che incroci il vissuto e non solo le pratiche, stili di vita diversi rispetto alla cultura rurale... possono essere tenuti in debito conto rispetto alla modalità di pensare e di gestire la parrocchia come fatto finora?

Sempre Evangelii Gaudium, al n. 28, recita: «La parrocchia non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della comunità». Quindi la trasformazione è inevitabile e, a mio avviso, deve avvenire su due livelli, intrecciati tra loro. Il livello territoriale e il livello operativo. La parrocchia deve pensarsi come un polo aggregativo rispetto a un determinato contesto geografico e culturale nel quale agisce e dal quale è realizzata. La comunità cristiana che la parrocchia è chiamata a raffigurare e testimoniare, si compone dei soggetti che la abitano e di quelli che la attraversano, di quelli che la scelgono e di coloro che incrocia (“pellegrini spirituali”). È una appartenenza composita e molteplice che diventa comunità nel radunarsi, nel condividere, nel collaborare, nell’avvicinarsi a un luogo di senso, prima ancora che pensarsi come istituzione. La comunità non esiste a priori ma nel momento in cui c’è una condivisione effettiva. Le coordinate canoniche dell’appartenenza, quelle anagrafiche, la inscrizione in un territorio, la unicità del parroco...non aiutano a dilatare i confini di un corpo ecclesiale che oggi deve essere poroso, nell’intento di superare la liquidità del vivere attuale. Una osmosi contestuale è condizione indispensabile domenica 18 dicembre 2022 13 per creare legami e relazioni che dicano la sua esistenza e persistenza di soggetto culturale: «La fede non può estraniarsi dai grandi temi della cultura attuale, facendo leva non sulle strutturazioni ecclesiali, ma sui passaggi fondamentali dell’esistenza», si diceva nel 2017 nello strumento per la consultazione La parrocchia. Sul versante operativo ci chiediamo cosa debba fare una parrocchia. La risposta sembra ovvia: generare alla fede. Ma anche qui la situazione è cambiata rispetto al passato e per rimanere fedele al suo ruolo vanno riviste le prassi. Pensiamo alla iniziazione cristiana, alle celebrazioni liturgiche, alla responsabilizzazione dei laici. Sono ambiti spesso nominati, ma come pensarli in modo che la parrocchia sia in grado “ancora” di svolgere la sua funzione? Se deve essere missionaria non può pensare di consolidare il presente per preservarlo dalla erosione. Tuttavia facciamo tutto come se fossimo ancora in un tempo di cristianità. I percorsi del diventare cristiani non sembrano dare risultati? I ragazzi in ogni caso se ne vanno sia con il metodo catechistico che con quello iniziatico? Molti genitori non trasmettono più la fede ai loro figli? Nella prassi antica il diventare cristiani era frutto di una scelta, di una conversione, di una presa di posizione. Abbiamo il coraggio di dire che si diventa cristiani solo in età adulta? Possiamo ipotizzare di dare i sacramenti a tutti coloro che lo chiedono senza il sospetto di un “ricatto formativo” nel chiedere un percorso previo, ma predisponendo in ogni caso un cammino per la crescita integrale dei ragazzi e delle persone che ne recepiscono l’importanza? Potremmo suggerire che prima ci si sposa davanti al sindaco, si matura un progetto di vita e poi si celebra il sacramento in chiesa? E via dicendo con queste provocazioni.... ma nemmeno tanto.

Ciò che è relativo alla fede e al Vangelo stimola la parrocchia a muoversi su più fronti, ma non potrà ottemperare a tutte le richieste. Per alcuni compiti ci vogliono professionalità e competenza. Non basta più il solo volontariato, la disponibilità, il buon senso. Pensiamo alla accoglienza dei migranti, alla direzione delle scuole dell’infanzia, alla gestione degli immobili, alle normative sulle manifestazioni culturali, alle incombenze burocratiche... Inoltre, di fronte alla molteplicità delle proposte pastorali, non si può che prevedere una polarizzazione formativa, gestionale, culturale, sportiva... dei servizi in modalità dislocata, favorita dalla collaborazione tra gruppi di parrocchie. Le risorse di ognuna confluiscono in specifici poli ecclesiali di offerta di “servizi” inerenti alla missione stessa della comunità. La logica non può essere del “tutto dappertutto” ma del “tutto nell’insieme” (cf. collaborazioni a “geometria variabile”, come suggerito nel 2019 nella Bozza di lavoro: i gruppi di parrocchie). La facilità con la quale le famiglie nel quotidiano si spostano per afferire ai centri di interesse favorisce l’organizzazione di una presenza ecclesiale di qualità dentro una omogeneità geografica. Non dimentichiamo che la parrocchia rimane la soglia popolare di ingresso alla fede. Non richiede nessuna tessera di adesione, non promette una esclusività qualificata, ma solo di lasciarsi condurre a Cristo, a partire dal battesimo. La soglia non segna un confine ma una breccia da attraversare che assicura il legame tra il prima e il dopo, tra la ricerca e la scelta, tra io e Dio. Per questo rimarrà come forma di Chiesa, anche se quella del futuro non esiste ancora, perché va pensata come una promessa per il futuro, una promessa di felicità radicata nell’avvenire, e non solo quello ultraterreno, come dice Dominique Collin nel suo libro Il Cristianesimo non esiste ancora (Queriniana 2020).

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