Ora di religione: un'opportunità preziosa per la crescita

Quest’anno – approssimandosi il tempo delle iscrizioni al nuovo anno scolastico e dunque anche il momento di scegliere se avvalersi o meno dell’insegnamento della religione cattolica (Irc) – ho pensato di scrivere personalmente qualche pensiero, affidandolo alle pagine del settimanale diocesano e alla divulgazione che spero i parroci e tutti coloro che lo leggeranno vorranno darvi. Non è solo un compito che la Chiesa italiana mi chiede come vescovo, ma la condivisione di alcune riflessioni da me maturate che spero utili per tutti.

Ora di religione: un'opportunità preziosa per la crescita

L’insegnamento della religione cattolica oggi rappresenta una grande opportunità per i nostri ragazzi sotto diversi profili. Anzitutto quello culturale: con lo scorrere veloce del tempo e la frenesia della comunicazione, rischiamo oggi di perdere la memoria di ciò che siamo, grazie anche alla nostra storia e alle conquiste sul piano del pensiero e dei valori, raggiunte nel nostro paese e nel nostro continente. Che si apprezzi o meno, è innegabile che il cristianesimo abbia segnato in modo indelebile e continui a segnare profondamente la nostra cultura e il nostro modo di vivere: basti pensare al calendario, alle festività, ai nomi che portiamo, al patrimonio artistico che arricchisce le nostre città, a tanti segni e parole che abbiamo ereditato dalla tradizione biblica e che sono di uso comune. L’Irc dovrebbe essere dunque laboratorio culturale che offre l’opportunità di comprendere a fondo ciò che ci proviene dall’esperienza cristiana e costituire una chiave di lettura della realtà non avulsa dai valori che scaturiscono dalla religione.
Inoltre, la sua apertura alla conoscenza anche di altre religioni, in ottemperanza a quanto richiesto dalle indicazioni nazionali ma anche agli insegnamenti del Concilio Vaticano II, dovrebbe permettere al giovane studente, cittadino di una realtà ormai multiculturale e multireligiosa, di conoscere e apprezzare il buono e il bello presenti nel credo di altri uomini e donne con i quali condividiamo in modo sempre più intenso lo spazio della polis. Laboratorio quindi di inclusione e di conoscenza reciproca, che vanno oltre il mero rispetto formale e diventano accoglienza e convivenza.
Mi pare che l’Irc oggi sia anche un grande laboratorio di umanizzazione, dove, a partire dal dato cristiano, il giovane possa confrontarsi sulle grandi domande della vita, quelle che vengono dette “domande di senso” e lì, come del resto dovrebbe avvenire in ogni disciplina, possa sperimentare la bellezza della ricerca della verità su di sé, sul sè in relazione, su Dio e il mistero della trascendenza che ci abita. Dovrebbe essere l’ora nella quale, per le modalità che attualmente la caratterizzano, lo studente, guidato sapientemente dal suo insegnante, sente di potersi liberamente mettere in gioco, facendo emergere il suo punto di vista, ma anche le domande che porta con sé, i dubbi e talvolta anche i suoi problemi personali.
Ma l’Irc è anche il luogo dove conoscere e saper interpretare i fondamentali del cristianesimo, per potersi interrogare sulla significatività del messaggio di Gesù di Nazaret; per poter riscontrare e correggere alcune incoerenze che si ravvisano tra il Vangelo e il modo di viverlo da parte di coloro che si dicono cristiani; scoprire, attraverso lo studio della Scrittura, della storia della Chiesa e del pensiero teologico, e la conoscenza delle esperienze di tanti testimoni di ieri e di oggi, la buona notizia giunta all’uomo di ogni tempo e di ogni luogo in Gesù.
Vorrei dire che il fascino dell’Irc, materia delicata per i contenuti che è chiamata ad affrontare e per le modalità secondo cui è configurata nel nostro ordinamento, è affidato molto alla persona dell’insegnante di religione, alla sua competenza e professionalità, ma anche alla sua capacità di relazione, alla sua autorevolezza di adulto e di cristiano che è ben consapevole che le sue parole, i suoi gesti, le sue idee e, in sintesi, la sua coerenza di vita saranno gli aspetti che non solo incideranno sulla scelta del ragazzo di avvalersi o non avvalersi ma saranno determinanti anche nella sua scelta di lasciarsi interpellare, in altra sede e forse in altro tempo, sul piano dell’esperienza di fede. Sono consapevole dell’impegno e talvolta della fatica che gli insegnanti di religione devono sostenere per essere all’altezza del compito loro affidato, come anche del fatto che il “sistema” spesso (non sempre) li consideri docenti di seconda o di terza classe, da trattare in modo diverso se non palesemente discriminatorio rispetto ai colleghi di altre discipline (anch’io da giovane prete sono stato insegnante di religione…).

Per questo, come vescovo, vorrei confermare loro la mia stima e gratitudine, invitandoli a rinnovare ogni giorno le motivazioni che li hanno portati a scegliere questo servizio nella scuola (e nella Chiesa). Al contempo, vorrei chiedere ai parroci di valorizzare gli insegnanti di religione, non in supplenza di altre figure ministeriali (catechisti), ma per il loro specifico esserci nella scuola, accanto a tanti altri cristiani impegnati nell’educazione: la pastorale per l’educazione e la scuola non può essere svolta dal solo ufficio diocesano, ma richiede una attenzione soprattutto a livello locale, quello più prossimo, rappresentato dalla parrocchia.
Alcune volte si sentono genitori che dicono: «Mio figlio non frequenta l’ora di religione perché va già a catechismo o a scout» oppure «perché non serve a niente». Di fronte a queste posizioni, mi permetto di far notare che l’ora di religione, se svolta bene (e se non lo è, si deve comunicarlo all’Ufficio diocesano di pastorale della scuola), non sostituisce né può essere sostituita dalla catechesi che dovrebbe essere non “educazione religiosa” ma “esperienza viva di Gesù Cristo” (fede); il confonderle significa far perdere ai propri figli una grande opportunità di acquisire un’ulteriore chiave di lettura della realtà e precludere loro spazi di ricerca condivisa della verità.
Mi piacerebbe che queste non restassero soltanto parole ma potessero entrare, magari attraverso i mezzi di comunicazione delle nostre comunità, nelle famiglie e nei gruppi, non come un semplice appello, ma come uno stimolo a riflettere e a scegliere un’opportunità preziosa per la crescita della persona nella sua completezza.

Claudio Cipolla
vescovo di Padova

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