Tratta, persone non numeri. L’incontro con Progetto Miriam, realtà di accoglienza gestita dalle Suore Francescane dei poveri

L'incontro con Progetto Miriam, realtà gestita dalle Suore Francescane dei poveri, aiuta a mettersi in ascolto chi si è ritrovato nella rete dello sfruttamento. Chi ha vissuto l’esperienza della tratta porta dentro la rabbia per un dolore che non si potrà mai cancellare, ma da cui possono germogliare semi di futuro

Tratta, persone non numeri. L’incontro con Progetto Miriam, realtà di accoglienza gestita dalle Suore Francescane dei poveri

Dietro il fenomeno della tratta – del quale i media parlano ancora troppo poco – ci sono le persone. E dietro ogni vittima – si stima che ogni anno vengano trafficate da 700 mila a 2 milioni di persone nel mondo – c’è una storia unica e irripetibile. In vista della Giornata mondiale di preghiera e riflessione contro la tratte, che ricorre lunedì 8 febbraio, è importante fare i conti non solo con gli scenari, i trend, le operazioni per la salvaguardia della dignità di ogni essere umano, ma soprattutto con le persone. 

Visitiamo Progetto Miriam, casa di accoglienza gestita dalle Suore Francescane dei poveri che, insieme a educatrici e psicologi, da anni accoglie a Padova donne e ragazze vittime di tratta e di sfruttamento. Il clima che si respira nella casa di Progetto Miriam è familiare. Ci sono orari precisi, regole chiare (il rispetto, la puntualità, gli impegni) ma soprattutto calore umano.

Veniamo accolti da O., che augura il buon compleanno a uno di noi. Racconta – con malcelata soddisfazione – di aver preso il diploma di terza media la scorsa estate e di essere stata la più brava della classe. Di O. ci colpisce la normalità. È una ragazza bellissima e giovane, molto giovane. Come tutte le adolescenti è disarmante: si trova bene con le suore, alterna timidezza a spontaneità, sorrisi a piccole battute.

Le storie di queste ragazze vittime di tratta hanno molti elementi in comune. Eppure, le ferite che ciascuna porta dentro di sé sono del tutto personali. E per guarire c’è bisogno di tempo, di discrezione, di vicinanza e di amore. Spesso queste ragazze provengono da famiglie numerose. Nel loro passato ci sono povertà, abbandono, responsabilità verso gli altri fratelli e sorelle più piccoli. Poi, l’incontro fatale con la rete di sfruttamento, attraverso il volto noto di un vicino di casa, di un amico o persino di un parente. C’è l’ingaggio, il viaggio, che per le africane, in particolare, contempla l’inferno della Libia. Dell’Italia il primo ricordo è la strada: l’iniziazione, le botte, le umiliazioni, lo sfruttamento. Ma c’è chi riesce a chiedere aiuto, c’è chi riesce ad arrivare in una comunità protetta e a intraprendere percorsi di vera e propria salvezza.

A Progetto Miriam ci sono suor Gabriella e suor Tina, responsabili della casa di accoglienza, che raccontano quanto sia al contempo straordinariamente difficile ed entusiasmante vivere insieme a persone che portano dentro il loro cuore sofferenze così grandi. Nelle loro giornate c’è la nostalgia di casa e del tempo passato, della famiglia d’origine, del Paese, della cultura, delle tradizioni e dell’infanzia rimasti lontano, c’è la rabbia per un dolore che non si potrà mai cancellare, sentimenti dentro i quali iniziano a germinare i primi semi di futuro.

Suor Gabriella e suor Tina. «Camminiamo con le ragazze nel loro processo di liberazione»

«Siamo in cammino con loro in questo percorso di liberazione. Le gioie di queste ragazze sono le nostre gioie. I loro dolori sono i nostri dolori». Suor Gabriella e suor Tina, Suore Francescane dei poveri responsabili della casa di accoglienza di Progetto Miriam, si sono completamente donate alle vittime di tratta. «Ognuna ha il proprio modo di affrontare quello che ha vissuto, alcune nel silenzio, altre hanno bisogno di “buttare fuori” anche con la rabbia le ingiustizie, le umiliazioni e le violenze subite, e noi siamo qui, con loro e per loro. E questo fa bene anche a noi, perché ci riporta alla nostra scelta di vita, all’essere a fianco all’umanità povera e sofferente».

Le ferite che fanno più male sono quelle del cuore: «Abbiamo notato negli anni la rabbia che hanno dentro le ragazze. Ciò che hanno vissuto provocano disagio, depressione e squilibrio. Ci siamo rese conto di quanto servisse accompagnamento psicologico e umano: vivendo con loro ci accorgiamo di quanto si portino ancora dentro a causa dei drammi che hanno vissuto, drammi che vengono fuori con noi nei momenti più impensabili e nei modi più imprevedibili».

Ma non basta: «Da queste ragazze c’è anche da imparare. Loro stesse, come ci dice papa Francesco nell’Evangelii Gaudium, ci evangelizzano con la loro capacità di prendersi cura degli altri e di condividere ciò che hanno. Aver fatto esperienza di povertà e di bisogno le rende più pronte a mettersi al servizio. E noi cresciamo insieme a loro».

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