20 anni di Bossi-Fini. Una normativa “inefficace, iniqua e irrazionale”

Gianfranco Schiavone, presidente dell’Ics di Trieste e membro di Asgi, riflette sulla riforma ormai necessaria della legge sull’immigrazione che in questi anni ha condannato troppe persone "a vivere una condizione di irregolarità e marginalità sociale"

20 anni di Bossi-Fini. Una normativa “inefficace, iniqua e irrazionale”

La legge n.189 del 30 luglio 2002, cosiddetta Bossi-Fini, compie 20 anni. Redattore Sociale ha chiesto ad alcuni esperti, impegnati sul terreno dei diritti e dell’accoglienza, di analizzare le luci e le ombre della normativa che regola l'immigrazione in Italia
Nel valutare la legge 30.07.2002 n. 189, cosiddetta Bossi-Fini, va sempre ricordato che si tratta di un impianto normativo che si sovrappone, modificandolo, al decreto legislativo n. 286/98, con il solo scopo di reprimere gli ingressi e i soggiorni irregolari peggiorando scelte errate e storture di fondo che spesso erano già presenti nella normativa previgente. In particolare la materia degli ingressi è quella che presenta le più serie criticità. Da sempre la normativa italiana ha infatti previsto che il (quasi) unico canale di ingresso regolare in Italia per lavoro sia quello costituito da un incontro tra domanda e offerta, che dovrebbe avvenire prima dell’ingresso in Italia dello straniero nell’ambito di quote predeterminate attraverso i cosiddetti decreti flussi. Prevedere che il datore di lavoro assuma una persona che non ha mai incontrato prima rappresenta un approccio irrazionale che ha prodotto distorsioni profonde. E’ vero che il D.Lgs 286/98 conteneva anche la previsione, cancellata proprio dalla legge Bossi-Fini, di una residuale possibilità di ingresso per ricerca di lavoro in presenza di una sponsorizzazione (o auto-sponsorizzazione) ma si trattava di una previsione residuale all'interno di una norma ancorata alla chimerica ideologia dell’incontro a distanza tra domanda e offerta di lavoro, tanto che la concreta attuazione delle procedure di sponsor, nei pochi anni in cui quella norma ebbe vita, fu così effimera da non lasciare traccia (pochi oggi neppure ricordano che tale previsione sia mai esistita). La cancellazione, nel 2002, di questa previsione determinò la completa eliminazione nell’ordinamento italiano della più naturale ed evidente modalità con le quali avvengono tutte le migrazioni, e specie quelle per lavoro, ovvero l’esistenza di catene famigliari e amicali le quali vanno certamente normate con rigore per evitare abusi ma senza negarne le grandi potenzialità.

Canali di ingresso regolari sempre più difficili

Con l'entrata in vigore della Bossi-Fini da un lato si resero difficoltosi i canali di ingresso regolare per motivi di lavoro subordinato (programmazione dei flussi a singhiozzo, con tempi burocratici dilatati e insufficienza di quote), dall'altro si eliminò ogni canale di ingresso regolare per ricerca di lavoro. Ciò ha prodotto in vent’anni un enorme bacino di persone irregolarmente presenti sul territorio nazionale entrate irregolarmente fin dall’inizio o entrate regolarmente ma poi rimasti dopo la scadenza del titolo di soggiorno e che non avevano alcuna possibilità di regolarizzare ex post la propria condizione perché – terza eccezionale rigidità della normativa italiana – la legge ha sempre escluso con tenacia degna di miglior causa ogni possibilità, a regime, di regolarizzazione il soggiorno in caso di possesso da parte del cittadino straniero di precisi requisiti di inclusione sociale conseguiti durante il periodo di irregolarità. 

La via obbligata e distorta delle sanatorie

Milioni di persone sono così state condannate a vivere una condizione di irregolarità e marginalità sociale avendo quale unica loro possibilità di sopravvivenza il lavoro nero, assai spesso confinante con il grave sfruttamento. Si è trattato di una irregolarità talmente diffusa da diventare la condizione comune della vita dei migranti, con numeri che letteralmente esplodevano negli anni nei quali non vi erano decreti flussi o gli stessi non prevedevano quote significative di ingresso. Si presti attenzione al fatto che gli stessi decreti flussi, quando esistenti, sono stati utilizzati come regolarizzazioni mascherate; il lavoratore straniero irregolare, che in genere già lavorava in nero, ha sempre finto di non essere presente in Italia, e ottenuta (se andava bene la corsa a chi arrivava primo) l'autorizzazione alla chiamata nominativa per lavoro, rientrava nel paese di origine in modo spesso rocambolesco per non essere intercettato e rientrava con il visto di ingresso per lavoro fingendo di giungere in Italia per la prima volta e conoscere finalmente quel datore di lavoro che l'aveva assunto scegliendolo dall'altra parte del mondo.

Non  essendo sufficienti queste forme di regolarizzazioni mascherate si sono rese necessarie quelle più esplicite altrimenti chiamate nel linguaggio comune, sanatorie. Le regolarizzazioni stesse, pur inevitabili, hanno però rafforzato un sistema malato e crudele in ragione della scelta che le ha quasi sempre caratterizzato tali provvedimenti ovvero quella di basarsi sulla sola volontà del datore di lavoro di fare emergere o meno il rapporto di lavoro irregolare (o di dare corso a un nuovo rapporto) senza prevedere alcuno spazio di azione del lavoratore irregolare ridotto a mero soggetto passivo della volontà del datore di lavoro o nella gran parte dei casi dovremmo dire più propriamente, del “padrone”. In tutte le situazioni nelle quali il reclutamento di manodopera in nero è finalizzata a imporre condizioni di sfruttamento approfittando dello stato di bisogno del lavoratore, è colpevolmente illusorio ritenere che il datore di lavoro/padrone si orienti verso la scelta di regolarizzare la posizione di lavoro dello straniero sfruttato per senso di giustizia o per timore di sanzioni. Troppe sono le ragioni per le quali non ha alcun interesse a farlo, prima tra tutte il fatto che il lavoratore straniero è in genere impiegato in lavori a bassa qualificazione e si trova in condizioni di marginalità e grave bisogno e quindi di elevata ricattabilità. 

Una riforma necessaria

La prima, ineludibile riforma del TU Immigrazione deve dunque concentrarsi sulla modifica delle attuali fallimentari procedure di ingresso che hanno prodotto enormi danni non solo ai cittadini stranieri ma a tutta la società italiana. Gli ingressi per lavoro subordinato di lavoratori devono avvenire non tanto attraverso il sistema della chiamata nominativa da parte di un datore di lavoro, quanto, innanzitutto, mediante un nuovo tipo di visto di ingresso “per ricerca lavoro” a chiunque possa offrire garanzie minime di sostentamento per un periodo ragionevole (esempio un anno) al fine di poter realizzare un effettivo incontro tra domanda e offerta di lavoro sul territorio nazionale. La richiesta di garanzie economiche per il viaggio e per il sostentamento nel periodo iniziale di soggiorno, inclusa la disponibilità di un alloggio, fornite dal migrante o da terzi corrisponde infatti alla realtà delle catene migratorie (e la rende trasparente) e previene il ricorso, altrimenti inevitabile, da parte del migrante, ai trafficanti di esseri umani. 

La riforma degli ingressi, però, deve essere accompagnata da una riforma delle procedure e dei requisiti in materia di soggiorno, anch'essa caratterizzata da una straordinaria rigidità che ha, ancora una volta, come effetto la produzione di ulteriore irregolarità. Nel sistema legislativo vigente per conservare il permesso di soggiorno, al fuori dei casi in cui sia titolare di un permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, il cittadino straniero deve sempre dimostrare di avere i medesimi requisiti  prevalentemente legati a una capacità reddituale) che aveva al momento dell’ingresso. Se, dopo il breve periodo in cui è autorizzato a rimanere nel territorio nazionale per ricerca lavoro, il cittadino straniero che non riesce ancora ad avere quei requisiti, cade nella irregolarità di soggiorno dal quale non potrà mai uscire (salvo le sanatorie) perché, come già sopra evidenziato, la norma non prevede la possibilità, in presenza di precisi requisiti, di riconquistare la regolarità di soggiorno. Si tratta di un'impostazione normativa che è in radicale contrasto con la realtà sociale di un mercato del lavoro purtroppo fortemente precarizzato, per italiani e stranieri, e che va rivista nella direzione di prevedere procedure meno draconiane e più orientate a valutare la qualità del percorso di inserimento sociale dello straniero nel nostro Paese e la sua durata, limitando l'adozione di provvedimenti di rifiuto di rilascio e di rinnovo del soggiorno con conseguente espulsione dal territorio nazionale solo laddove ogni altra ragionevole prospettiva di regolarizzare la posizione dello straniero si sia resa in concreto non possibile. La disciplina delle espulsioni, da riscrivere interamente, anche sul piano delle procedure e delle garanzie giurisdizionali, va ricondotta al suo corretto alveo ovvero quello di provvedimenti da assumere solo a seguito di una rigorosa istruttoria (e non provvedimenti fotocopia privi di adeguate motivazioni e senza un controllo di legittimità idoneo, come avviene oggi) in casi strettamente limitati sui quali concentrare l'attenzione per rendere effettivo l'allontanamento nell'interesse di tutta la collettività.  

di *Gianfranco Schiavone

*Gianfranco Schiavone è il presidente del Consorzio Italiano Solidarietà (Ics) di Trieste e membro di Asgi (Associazione studi giuridici per l'immigrazione)

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