A 39 anni dal terremoto in Irpinia: riscoprire l’entusiasmo di ricostruire comunità e relazioni

La testimonianza di mons. Sergio Melillo, vescovo di Ariano Irpino-Lacedonia, che quel 23 novembre del 1980, da giovane quale era, rimase direttamente segnato da quel tragico evento: "In un attimo si sgretolarono le case e le antiche Chiese dalle facciate imbrunite dal tempo che custodivano memoria e l’Eucarestia racchiusa nei tabernacoli, il tesoro di ricordi, oggetti votivi, doni di emigranti lontani, quadri e pregevoli manufatti artistici che narravano una fede radicata nel cuore della nostra gente"

A 39 anni dal terremoto in Irpinia: riscoprire l’entusiasmo di ricostruire comunità e relazioni

Un tonfo. Un silenzio, polvere e stupore…. lacrime e morte. Era questo il clima di quella serata tiepida del 23 novembre del 1980. Con un bicchiere d’aranciata tra le mani in un incontro tra coetanei – in quelle feste senza pretese – al quarto piano di una casa popolare ad Avellino. Era un giorno di festa.
In un attimo si sgretolarono le case e le antiche Chiese dalle facciate imbrunite dal tempo che custodivano memoria e l’Eucarestia racchiusa nei tabernacoli, il tesoro di ricordi, oggetti votivi, doni di emigranti lontani, quadri e pregevoli manufatti artistici che narravano una fede radicata nel cuore della nostra gente. In quella sera morirono in tanti: alcuni volti sono per sempre serbati nel cuore; tra loro anche quelli dei preti, sempre fedeli a quei luoghi con la passione del ministero pastorale.
Quel boato sordo, seminando morte, si amplificò a dismisura con oscurità e cupi silenzi. Cadde in un attimo un mondo, facendoci inopitamente intravvedere già i segni, le ferite di un futuro inatteso ed incerto.

Scendendo a precipizio per le scale di quella “palazzina”, mi trovai in un androne del modesto condominio tra persone in lacrime e alcuni anziani in pigiama. Ascoltavo, tra le voci animate di uomini dai volti impalliditi e con sguardi inebetiti, perfino affermazioni assurde sull’imminente fine del mondo. Certo, ebbe fine un “mondo” … che a guardarlo oggi, con la nostalgia e l’entusiasmo della giovinezza immersa in quel caos improvviso, posso dire che quello era sì un tempo difficile ma “formidabile”.

In quella sera la città nel caldo tiepido si sentiva incoraggiata dai risultati di una bella partita di calcio. Ma, di colpo piombò nel dramma.
Dopo il boato ritornai rapidamente sui miei passi e, risalendo traballanti gradini, mi caricai sulle spalle l’anziana nonna degli amici: era sola, impaurita tra pareti vuote e silenziose … ricordo ancora oggi l’immagine degli armadi e dei mobili rivolti a terra, come se volessero proteggere i ricordi di un tempo ormai passato.
Quel continuo ondeggiare del suolo spingeva a sollevare lo sguardo verso un invisibile nemico! Le finestre avevano – in un nanosecondo – riflesso tra lo scricchiolio dei vetri un lampo di luce rossastra che preannunciava uno scossone, frutto d’una causa ignota che produsse il sussulto della terra violata. Il pavimento della stanza era in un fluido movimento, continuo e ondeggiante, come se, un invisibile pianista – attraverso una toccata e fuga sul pianoforte – pigiasse con forza i tasti delle mattonelle. La stessa gravità dissolta della casa popolare costruita nel dopoguerra, sollecitava il pavimento composto da quelle che chiamavamo le “riggiole”, facendole inerpicare in successione in una ripida ascensione.
Dopo un cenno di saluto, fatto di umidi sguardi, ritornai a casa. Il “corso Vittorio Emanuele”, la via centrale, era sommerso da una nebbiolina di polvere attaccaticcia. La vita era interrotta oltre la tragica morte delle persone. I passanti disorientati si stringevano insieme in capannelli di dolore. Incontrai nei pressi del carcere borbonico il professore Federico Biondi che si fermò un attimo per un fugace saluto … ricordo ancora oggi i tratti tirati del volto di quella sera. Tanti edifici sbrecciati dagli anni e dall’incuria erano crollati. In via Mancini ebbi la percezione della tragedia: era morta una ragazza e, negli anni successivi, ogni 23 novembre, la madre e il padre verranno in Duomo per la celebrazione della Messa.

Mi sembrava di attraversare uno scenario da film neorealistico con un tragico chiaro scuro di stupore e di dolore.

In piazza Libertà, tra il crollo immane di via Cascino, nei pressi dell’episcopio, c’era il vescovo monsignor Pasquale Venezia che rividi, l’indomani, avvolto in un mantello infreddolito, seduto nell’autobus, quale unico riparo sicuro in quella notte oscura che ascoltava e consolava. Ebbi la chiara percezione che tra la gente si fosse accesa una fraternità inaspettata. Dio in ci aveva abbandonati!
La ricostruzione, con le sue difficoltà e le molteplici ombre, ha prodotto un cambiamento epocale. Nel mentre si ricostruivano nuovi profili ai paesi, si passò dalle tende, alle “roulotte” e ai “prefabbricati”. Si insedieranno industrie mai veramente decollate, strutture progettate in laboratori disincarnati. Nacquero luoghi senza memoria. Nonostante molto sia stato fatto nel risollevare questo territorio del Mezzogiorno, si è prodotto uno sgretolamento di rapporti tra il territorio e la vita.
In quel minuto e mezzo Avellino e l’Irpinia sprofondarono in una notte oscura. Furono tanti i volontari che vennero in aiuto da ogni parte d’Italia e del mondo.
Il 25 novembre 1980, a pochi giorni dal terremoto, accolto al campo Coni dal vescovo Venezia e dall’Abate di Montevergine padre Tommaso Gubitosa, san Giovanni Paolo II visitò le zone terremotate facendo sosta all’Ospedale Civile di Avellino e scrisse: ”Ho ancora negli occhi e nel cuore le fosche immagini delle indescrivibili distruzioni; ricordo la mia visita alla zona colpita dal sisma, ad Avellino. Mi recai in quei luoghi per ridire ai superstiti, ai feriti, a tutti, il messaggio della fede cristiana e per dare loro un segno di quella speranza, che per l’uomo deve essere l’altro uomo.”

Si distinse la grande vitalità della Chiesa Italiana, della Caritas di mons. Luigi Nervo che soccorse con energie – insieme ai tanti volontari, sacerdoti e religiosi – le stremate popolazioni, i parroci e le comunità provate da lutti e rovine. Si realizzarono gemellaggi tra diocesi e parrocchie di tutta Italia. Quegli anni furono un laboratorio pastorale, un’esperienza storica di presenza e di scambio che non si era mai verificata fra il Nord ed il Sud d’Italia.

Furono dalla Caritas impiantanti i box cappella, i centri di comunità. Fu dato molto! Per i giovani un’esperienza entusiasmante seppur vissuta nella tragedia. Il vescovo di Avellino Pasquale Venezia, i parroci e i religiosi riuscirono a custodire la fede in qui luoghi ormai devastati. Tra questi ricordo le suore della Carità dell’Istituto “Santa Maria” che si prodigarono al “Campo Genova” di Avellino tra le tende e i prefabbricati leggeri dei terremotati.
Gli anni trascorsi non cancellano nulla dalla mente e dal cuore: immagini e volti, paesi crollati e stravolti, i lunghi inverni nelle tende, le roulotte, i prefabbricati e i tormenti mai sopiti dell’infinita ricostruzione.
Oggi, nell’amata terra di mezzo, dove è in atto una diaspora di giovani, una nuova emigrazione, nel pieno dell’inverno demografico che spopola i nostri paesi, la lezione che giunge attuale da quel tempo lontano è determinante per il nostro futuro: il compito è di riscoprire l’entusiasmo di ricostruire comunità e relazioni.

mons. Sergio Melillo 
vescovo di Ariano Irpino-Lacedonia

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Fonte: Sir