Afghanistan, l'accusa: così la burocrazia italiana ritarda gli arrivi e mette a rischio le persone

La denuncia delle organizzazioni italiane. Miraglia (Arci): “Siamo riusciti a far arrivare le persone in Pakistan, ma i controlli di sicurezza durano mesi, così i visti scadono e rischiamo che siano rimpatriate, tornando in mano ai talebani”. In pericolo donne attiviste e famiglie con bambini

Afghanistan, l'accusa: così la burocrazia italiana ritarda gli arrivi e mette a rischio le persone

“Siamo preoccupati e delusi, il modo in cui si sta operando mette a rischio la vita di persone, che sono riuscite a scappare dai talebani e che ora potrebbero finire di nuovo nelle loro mani”. Lo sfogo amaro di Filippo Miraglia, responsabile immigrazione di Arci, arriva dopo l’ultima riunione del tavolo interministeriale sull'Afghanistan, che coinvolge i dicasteri di Esteri, Interno e Difesa e le ong attive in Italia e nel mondo. Dal ritorno dei talebani a Kabul le organizzazioni umanitarie e di volontariato italiane si sono messe a disposizione del Governo per coadiuvare il lavoro di evacuazione, per sostenere i corridoi umanitari ma anche per pensare modalità di ingresso legali e sicure per le persone più vulnerabili e a rischio.
E’ il caso di alcune delle donne che erano assistite dalle organizzazioni Pangea e Nove onlus e che Arci, in accordo con Aoi (l'associazione delle ong italiane) ha preso in carico per farle arrivare tramite la procedura della sponsorship. Nella pratica, una volta giunte in Pakistan o in Iran avrebbero dovuto ricevere un visto per poi poter arrivare in sicurezza nel nostro paese. “Queste persone, tra cui famiglie con bambini hanno corso un pericolo altissimo attraversando il confine tra Afghanistan e Pakistan. Tra loro ci sono attiviste, giornaliste, che hanno anche fatto manifestazioni contro i talebani e quindi sono molto esposte. Per mesi hanno vissuto nei nascondigli a Kabul, ora che sono riuscite ad arrivare in Pakistan sono bloccate da una burocrazia lentissima”, spiega Miraglia. 

La lentezza nel rilascio del visto sarebbe legata ai controlli di sicurezza che l’Italia sta facendo sui singoli casi: “Nella riunione del tavolo ci è stato detto che questi controlli hanno una durata media di tre mesi - aggiunge Miraglia -. E’ insopportabile e non giustificato, anche perché ora hanno un visto di 60 giorni, ma se va avanti così il visto scadrà e potrebbero essere rimpatriate. Finiranno di certo nelle mani dei talebani da cui scappano, a rischio di tortura o morte. E’ davvero assurdo, noi abbiamo assunto l’impegno di farci carico dell’arrivo e dell’accoglienza, non capiamo perché si sia aspettando tanto: queste persone le conosciamo, su ognuna di loro c’è un dossier, abbiamo tutti i loro nomi e i loro passaporti. Quindi vanno bene i controlli di sicurezza aggiuntivi, ma non possono durare così tanto non ha senso, soprattutto davanti a un pericolo imminente". 
Alcune delle donne in attesa sono state assistite in Afghanistan da Pangea onlus, che ora ha aperto una casa rifugio anche in Pakistan. “L’attesa è snervante, questi tempi sono insostenibili - sottolinea Simona Lanzoni, vicepresidente della onlus - . Alcune di loro hanno vissuto da settembre, per mesi in una safe houses, senza mai poter uscire. Sono sotto pressione psicologica, il terrore di morire da un giorno all’altro le perseguita, è tutto troppo pesante. Nella casa di accoglienza in Pakistan abbiamo ora messo a disposizione una persona che le aiuta con un supporto psicologico. Per ora - aggiunge Lanzoni - stiamo pagando tutto noi: i passaporti, il visto e l’alloggio. L’ambasciata italiana in Pakistan è impossibile da contattare, non siamo facilitati dall'Italia nel fare la rischiesta dei visti. Se, invece, il nostro governo facesse da intermediario per noi sarebbe un aiuto fondamentale. Avremmo così anche la possibilità di fare un lavoro omogeneo: per acceder ai visti c’è solo una procedura online e ci ritroviamo con documenti che arrivano in tempi diversi anche se si tratta della stessa famiglia”.

Dopo le 4732 persone arrivate in Italia con l’operazione Aquila omnia gli ingressi dall'Afghanistan e dai paesi limitrofi sono stati limitati. Ad oggi le persone accolte nel sistema di accoglienza Sai sono 782 a fronte di 3006 accolte nei Cas. "Mille persone sono scomparse dal sistema, molto probabilmente sono andate via. E una delle ragioni è legata al fatto che sono stati messi in posti di accoglienza non adeguati - aggiunge il responsabile di Arci - L’ allargamento annunciato dei 3000 posti nel Sai al momento non è ancora operativo. Devono essere attivate le convinzioni, ci vorranno altri due mesi”. 

Fermi o con ritmi molto rallentati sono anche i ricongiungimenti familiari: gli afgani arrivati in Italia, hanno chiesto infatti di poter far arrivare le famiglie, anch’esse in pericolo. Ma le procedure procedono a stento, difficile è anche far arrivare le richieste all’ambasciata italiana di Islamabad. “E’ praticamente irraggiungibile - spiega ancora Miraglia- durante la riunione ci hanno assicurato che stanno rafforzando il personale interno. Nei fatti le persone non ottengono il visto, nel frattempo rischia di scadere il nulla osta ottenuto in Italia, così che in molto dovranno rifare da capo la procedura di ricongiungimento. Che non è una procedura semplice: bisogna esibire tutta la documentazione. Abbiamo chiesto che ci sia una proroga. Ma è tutto sospeso: nel frattempo i parenti dei profughi in Italia dovrebbero raggiungere Pakistan o Iran, a loro spese, spesso affidandosi ai trafficanti e pagando cifre altissime. E’ una situazione paradossale, che riguarda anche i corridoi umanitari: dal ministero dell’Interno ci hanno detto che è tutto fermo perché non sono arrivati i fondi richiesti all’Unione europea. Praticamente l’Italia non ha i soldi per i voli. Come organizzazioni ci siamo offerte di pagarli noi, questo immobilismo non può andare avanti. Le persone sono a rischio, anche se in troppi hanno dimenticato cosa è successo e sta succedendo in Afghanistan”.

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)