Braccianti indiani sfruttati nell’Agro Pontino. Dopo lo sciopero, il “nulla”

Il caso dell’indiano trovato malnutrito a bordo strada sulla via Appia a Fondi riapre il tema a un mese dalla manifestazione organizzata dalla comunità sikh a Latina. Per Marco Omizzolo, sociologo di In Migrazione e Eurispes, la sola repressione non basta: mancano ancora “servizi territoriali avanzati”

Braccianti indiani sfruttati nell’Agro Pontino. Dopo lo sciopero, il “nulla”

ROMA - È stato ritrovato a bordo strada, sulla via Appia, nei pressi di Fondi, disteso a terra sotto una coperta e con la sua bicicletta. Sembrava l’ennesima vittima di un incidente stradale, ma all’arrivo delle forze dell’ordine allertate da un passante si è scoperto che l’indiano di circa 30 anni che sembrava morto, in realtà, dormiva stremato. Qualche ora più tardi, in ospedale, i medici hanno riferito in merito al suo stato di evidente malnutrizione. È accaduto solo pochi giorni fa e sembra una storia a lieto fine, ma non è così. Si tratta di una delle tante situazioni di povertà e sfruttamento in cui vivono ancora oggi molti braccianti sikh presenti nell’Agro Pontino, spesso sottopagati e alcuni anche minacciati. Una comunità numerosa che vive e lavora nel Lazio ormai da circa 30 anni e che tuttavia sembra ancora invisibile. Gli stessi braccianti, un mese fa a Latina, hanno manifestato in piazza per chiedere migliori condizioni di lavoro, ma le loro richieste d’aiuto (è la seconda volta che scioperano e stavolta lo hanno fatto in modo del tutto autonomo, con l'adesione successiva dei sindacati) sembrano essere cadute nuovamente nel vuoto.  Secondo Marco Omizzolo, sociologo di In Migrazione e Eurispes, noto anche per le sue ricerche condotte sul campo da infiltrato tra i braccianti, oggi la comunità sikh vede una presenza sul territorio di circa 30 mila persone, di cui tra i 15 e i 18 mila sono braccianti che lavorano nei campi e nelle serre. Una realtà “complessa”, spiega Omizzolo, ma che anche grazie alle recenti manifestazioni di piazza, è riuscita a venire fuori dall’invisibilità assoluta. “Oggi nessuno può più dire che il tema non esista - spiega il sociologo -. È stato riconosciuto anche a livello mondiale: le Nazioni unite hanno condotto interviste e realizzato un dossier”. Tuttavia, le condizioni di vita e di lavoro di questa numerosa comunità restano critiche. “A distanza di molte e importanti vertenze, a partire dallo sciopero del 18 aprile 2016 fino a quello del 21 ottobre scorso - racconta Omizzolo -, dopo le denunce e i processi aperti, i sequestri e altro ancora, la situazione resta complessa e non risolta”.  Qualcosa è cambiato, ma c’è ancora molto da fare. “Ci sono aziende che hanno fatto dei passi in avanti e hanno iniziato a retribuire meglio i braccianti indiani: si è passati dai 2,5 euro a ora degli anni antecedenti al 2016 ai circa 4,5 euro all’ora di oggi, ma si continua a lavorare per molte ore al giorno. Quei due euro in più l’ora sono ancora poco considerando il monte ore complessivo”. A tutto questo, si aggiungono condizioni di lavoro che non sono migliorate. “I braccianti, soprattutto gli indiani, vivono ancora condizioni di particolare sfruttamento. Molti lavorano senza le necessarie misure di sicurezza, senza scarpe antinfortunistiche e senza guanti. Alcuni sono stati trovati dalla polizia a lavorare scalzi e senza mascherine”.  Il caso dell’indiano trovato sulla via Appia è emblematico, spiega Omizzolo. “Ci troviamo probabilmente davanti ad un lavoratore stremato dalla fatica - racconta il sociologo -. Avendo lavorato come infiltrato anche quest’estate nelle campagne, ho osservato cosa significa lavorare in alcune aziende del territorio. I braccianti arrivano stremati al tempio indiano più vicino piuttosto che a casa. Lì cercano di riposare perché vi è un servizio di welfare comunitario, viene offerto loro del cibo e anche due parole di conforto. In questo caso, la cosa drammatica è che le sue condizioni di lavoro e di vita di quel ragazzo sono così estreme che non ha avuto neanche la forza di arrivare al tempio indiano più vicino”.  Secondo quanto riportato dalla stampa locale, il giovane indiano non ha saputo neanche fornire le proprie generalità e anche questo aspetto della notizia mostra un quadro allarmante per quanto riguarda l’assenza di servizi minimi. “La nuova legge, la 199 del 2016 è intervenuta nel territorio soprattutto nei suoi aspetti repressivi - spiega Omizzolo -, non su quelli preventivi su cui c’è una mancanza grave. Sono aumentati i controlli, ma i braccianti si trovano ancora a non parlare l’italiano, il che significa che non ci sono servizi avanzati nel territorio volti all’emancipazione dei braccianti indiani e non c’è neanche un servizio di mobilità adeguato, tant’è vero che molti girano ancora con la bicicletta”. Per Omizzolo, occorrono “servizi territoriali avanzati, centri di formazione con professionisti veri che permettano ai braccianti di conoscere l’italiano, di saper interpretare la busta paga, leggere correttamente il contratto di lavoro, decifrare la propria nuova realtà sociale e sapere qual è il ruolo delle forze dell’ordine, del sindacato, cosa significa fare una denuncia”. Che ci sia ancora tanto da fare lo dimostra anche una recente operazione delle forze dell’ordine. E di una settimana prima allo sciopero del 21 ottobre, il caso di un imprenditore che “obbligava cinque suoi braccianti indiani, sotto la minaccia di un fucile a pompa, a lavorare a ritmi elevati per molte ore al giorno, probabilmente 16-18 ore, e a fare anche turni notturni - racconta Omizzolo -. Coloro che cercavano di ribellarsi venivano minacciati con un coltello alla gola”.  Anche le condizioni di vita negli alloggi dei braccianti raccontano un mondo ai margini dimenticato dalle istituzioni. “Molti hanno preso in affitto miniappartamenti all’interno di residence originariamente nati come seconde case per turisti - racconta Omizzolo -. Ci sono delle situazioni che riflettono la condizione di povertà di chi ci abita, ma non c’è disagio estremo”. Questa situazione, però, ha dei risvolti importanti. “Vivono in appartamenti, hanno un minimo di reddito e una situazione apparentemente decente - racconta Omizzolo -: questa è una delle ragioni per cui per trent’anni nessuno si è occupato del tema. La lettura semplificata fatta negli anni è stata proprio questa: non c’è la baracca, il problema non esiste. Ma in realtà non è così”.  E il fenomeno del “doping” tra i braccianti indiani dimostra che il cono d’ombra nel quale vivono queste comunità può soltanto complicare le cose. “Metanfetamine, oppio e antispastici vengono assunte dai braccianti in maniera indotta con la complicità chiara del caporale indiano e del datore di lavoro italiano - racconta Omizzolo -. Lo scopo è quello di reggere ai ritmi di lavoro. Se le istituzioni ci avessero dato retta nel 2014 e avessero messo in campo dei servizi sociali adeguati, oggi il fenomeno sarebbe molto più modesto. In realtà è cresciuto e registriamo casi di indiani, soprattutto i più poveri ed emarginati, che stanno precipitando nell’assunzione di sostanze molto pesanti, soprattutto eroina, acquistate nei mercati di Castel Volturno e Villa Literno. Questo mette insieme il tema dello sfruttamento lavorativo nelle campagne pontine con quello della camorra e della mafia nigeriana. Due mondi che si sono avvicinati”. Come se non bastasse, i braccianti risultano esposti anche a sostanze pericolose per la salute, spesso nell'assenza totale delle misure di sicurezza. “Stiamo parlando dell’utilizzo, su obbligo del datore di lavoro, di fitofarmaci clandestini e cancerogeni vietati in Italia ormai da molti anni - racconta Omizzolo -. La materia prima necessaria per creare questi fitofarmaci viene acquistata in Cina, arriva nei porti italiani di Gioia Tauro e Napoli, viene lavorata nei laboratori della camorra e venduta nottetempo ad alcuni datori di lavoro che poi obbligano, spesso col lavoro notturno, i braccianti a distribuire queste sostanze senza le necessarie misure di sicurezza”. Su questo, ci sono già studi clinici, spiega Omizzolo, secondo cui “queste sostanze molto probabilmente porteranno a patologie gravi. Il problema non è soltanto dei braccianti, ma è anche di carattere ambientale. Riguarda la comunità che abita in quel territorio e anche i consumatori che comprano e mangiano questi prodotti”. Lo sciopero del 21 ottobre scorso che ha portato in piazza migliaia di lavoratori e sensibilizzato l’opinione pubblica, tuttavia, rischia di restare un grido di dolore nel deserto. “Cosa è accaduto dopo? Nulla - chiosa Omizzolo -. Al di là dei controlli, non si è aperto nessun tavolo istituzionale, non ci sono proposte per recepire almeno alcune delle richieste fatte dalla comunità indiana del Lazio. È una critica che faccio anche ai sindacati. Troppo facile andare in piazza e portare le proprie bandiere. È necessario far seguire atti concreti”. Come la presa di posizione nei processi per caporalato e sfruttamento. “Non trovo, se non la Flai Cgil in alcuni, gli altri sindacati come parte civile - continua Omizzolo -. Questa e anche l’assenza delle categorie datoriali è estremamente grave: a me sembrano o gravemente silenziose o propense a definire il tema come marginale”. I primi processi, intanto, sono arrivati quasi al termine, conclude Omizzolo. “Attendiamo la chiusura dei primi per il prossimo anno - spiega - e ad oggi la prospettiva è quella di sentenze favorevoli ai lavoratori”.Giovanni Augello

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)