Brexit e confine in Irlanda. Mons. Eamon Martin (vescovi irlandesi): “Non si spezzi il processo di pace”

Un invito alla calma e alla moderazione, anche nell’uso del linguaggio, in modo che il processo di pace, a fatica avviato in Irlanda e ancora molto fragile, non si spezzi. A chiederlo è il presidente dei vescovi irlandesi, mons. Eamon Martin, arcivescovo di una diocesi – Armagh – che si estende come territorio tra Eire e Irlanda del Nord. Da Santiago de Compostela dove si è svolta l’Assemblea plenaria del Ccee, mons. Martin prende la parola. “Non sappiamo cosa succederà ma la sensazione non è buona, questo è sicuro. Mancano poche settimane alla ‘data di scadenza’ e c’è molta incertezza”

Brexit e confine in Irlanda. Mons. Eamon Martin (vescovi irlandesi): “Non si spezzi il processo di pace”

Un confine tra Eire e Irlanda del Nord secondo le ancora incerte prospettive Brexit: spaccherebbe in due una popolazione che solo da pochissimi anni sta cercando con fatica di risanare le ferite di una guerra fratricida mettendo in serio percolo il difficile processo di riconciliazione. È un appello alla moderazione quello lanciato da mons. Eamon Martin, arcivescovo di Armagh e presidente dei vescovi irlandesi. Se il nodo più spinoso del processo Brexit è l’Irlanda, non c’è persona migliore dell’arcivescovo per parlarne. La sua arcidiocesi si trova a cavallo del confine. Ma la sua non è un’eccezione: solo due diocesi nordirlandesi appartengono completamente all’Irlanda del Nord; le altre quattro sono in parte in Irlanda e in parte nel Regno Unito. La gente in questo territorio di “confine” è abituata a vivere tra “due Paesi”, con “due” valute, “due” circoscrizioni amministrative, “due” agenzie delle entrate. “I miei parrocchiani si spostano ogni giorno da una parte all’altra per fare la spesa, per mettere carburante alla macchina, secondo dove costa meno”, sorride l’arcivescovo. Ci sono lavoratori o studenti che vivono da un lato del confine ma hanno il posto di lavoro o vanno a scuola nell’altro. “Quello che rende tutto questo vivibile è la libertà di movimento”.

Mons. Martin, in questa libertà di movimento, che ruolo ha avuto fino ad oggi l’Unione europea?

L’appartenenza di entrambi i Paesi all’Ue ci ha finora fornito una “tela aperta” su cui costruire la nostra vita. Ha fornito – come hanno sottolineato grandi statisti come John Hume – sia ai cattolici nazionalisti che ai repubblicani una visione in base alla quale tutti potevano condividere un futuro comune in un contesto in cui unionisti e “Loyalist” potessero sentirsi fratelli e sorelle, membri di un’Europa comune, nonostante le diversità culturali e le differenti radici. E, cosa ancora più importante, questa appartenenza ha permesso lo sviluppo del processo di pace.

Con la Brexit, cosa succede?

Non lo sappiamo ma la sensazione non è buona, questo è sicuro. Mancano poche settimane alla “data di scadenza” e c’è molta incertezza.

Cosa fa più paura?

In Irlanda del Nord non ci sono grandi aziende. La maggior parte della gente lavora in piccole e medie imprese, e molti nel settore agricolo-alimentare e nell’allevamento. Quindi la libertà di movimento è essenziale per tutti loro. Immagini un piccolo imprenditore che non ha idea di cosa succederà nel giro di poche settimane. L’ipotesi che sta prendendo forma – secondo l’attuale posizione britannica – di pianificare una qualche forma di controllo doganale (anche se al momento non è prevista alcuna infrastruttura presente sul confine) è quello che fa paura alla maggior parte della gente. Se l’intero Regno Unito non farà più parte del sistema doganale dell’Ue, ci dovrà essere anche qui qualche forma di controllo doganale, con conseguenti imposte doganali, e poi ancora presenza militare, polizia, misure di sicurezza.

Cosa è successo in questi anni?

Nel corso degli ultimi anni, mentre andava avanti il dibattito sulla Brexit, ho assistito ad una crescente divisione in varie fazioni. Le persone tendevano a prendere posizioni estreme sia da un lato sia dall’altro, guardandosi a vicenda con sospetto e diffidenza e assumendo posizioni forti e molto rigide. Dalla scorsa estate ho notato un crescente settarismo e ricorso al “discorso dell’odio” e, purtroppo, anche un crescente ricorso alla violenza. Penso all’assassinio della giovane giornalista Lyra McKee, oltre a numerosi attacchi a luoghi di culto vicino al confine.

Di fronte a questa situazione, mons. Martin, cosa chiedere?

Occorre una forte assunzione di responsabilità da parte di tutti, leadership politica, società civile, e autorità religiose alla calma e alla moderazione, anche nell’uso del linguaggio, dando esempi di amicizia e collaborazione reciproca, in modo che il processo di pace, che è molto fragile, non si spezzi. Questo è quello che sta avvenendo a livello di Chiese: lavorare e testimoniare insieme l’armonia e la riconciliazione. Recentemente, per esempio, abbiamo rivolto un appello ai leader di entrambi gli schieramenti politici per un impegno per la pace.

A livello di politica locale quali risposte avete ricevuto?

Un’altra paura che abbiamo riguarda proprio l’assenza di un’Assemblea che ha prodotto un’erosione della fiducia nei confronti della democrazia parlamentare. A questo si aggiungono le scene di aggressioni che abbiamo visto a Westminster, con persone che si urlavano addosso, con rabbia. Questo è esattamente l’opposto del modello di politica che cerchiamo di incoraggiare, basato sulla moderazione, sull’attenzione all’altro, sull’uso del linguaggio.

Vuole rivolgere un appello a Boris Johnson e all’Unione europea?

Chiederei di sostenere con forza i principi espressi nell’Accordo del Venerdì Santo, principi basati sulla fiducia e sulle legittime aspirazioni di ogni parte in causa. Uno dei principi espressi nell’Accordo del Venerdì Santo – e che rappresenta un fattore determinante del suo successo – è che ci possono essere differenze in termini di legittime aspirazioni. Sostenere i principi espressi nell’Accordo del Venerdì Santo significa oggi contribuire a un futuro migliore per tutti coloro che si trovano a condividere la vita sull’isola dell’Irlanda.

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