Coronavirus, -38% nei salari ai lavoratori tessili del sud-est asiatico

La stima (al ribasso) della Campagna Abiti Puliti che chiede la restituzione degli stipendi non pagati durante la pandemia. A livello mondiale, escludendo la Cina, la cifra dei salari dovuti ai lavoratori è tra 3,19 e 5,78 miliardi di dollari

Coronavirus, -38% nei salari ai lavoratori tessili del sud-est asiatico

In tutti i Paesi del sud e sud-est asiatico i lavoratori tessili hanno ricevuto strutturalmente il 38% in meno di quanto gli spettasse. In alcune regioni dell'India, si supera addirittura il 50%. Rapportando questi numeri all'industria mondiale dell'abbigliamento, escludendo la Cina, un'ipotesi prudente attesta tra 3,19 e 5,78 miliardi di dollari la cifra dei salari dovuti ai lavoratori. È quanto emerge dal report 'Stipendi negati in pandemia’, che analizza i mancati pagamenti e i tagli salariali ai danni dei lavoratori tessili nei mesi di marzo, aprile e maggio in seguito all'imposizione di aspettative non retribuite, a tagli pubblici, all'interruzione dei rifornimenti e alla cancellazione di ordini da parte dei brand.

La Campagna Abiti Puliti, insieme ai partner della Clean Clothes Campaign, chiede ai marchi e ai distributori di assumersi le loro responsabilità garantendo ai propri lavoratori e lavoratrici il versamento di tutti i salari che gli spettano in accordo con il diritto del lavoro e gli standard internazionali. "I membri del nostro sindacato vivono già con salari di povertà, meno di un terzo di un salario vivibile- dichiara in una nota Khalid Mahmood, del Labour Education Foundation in Pakistan- Non hanno alcuna possibilità di accantonare risparmi per una crisi come questa, né hanno una rete di sicurezza sociale su cui fare affidamento. Anche un piccolo taglio salariale significa fare delle scelte tra beni di prima necessità, come portare a casa abbastanza cibo per tutti o pagare l'affitto in tempo. I lavoratori dell'abbigliamento dovranno affrontare la miseria molto prima dei loro datori di lavoro o dei marchi per cui producono: è ora che quest'ultimi si facciano carico delle loro responsabilità”.

"A causa della mancanza di molti dati, abbiamo dovuto fare una stima e limitare la nostra ricerca al sud e sud-est asiatico- aggiunge David Hachfeld, di Public Eye/Clean Clothes Campaign Switzerland, nella nota di Abiti Puliti- Non c’è alcuna ragione comunque per pensare che la situazione sia tanto diversa negli altri Paesi. Anche se le nostre conclusioni sono al ribasso, i numeri sono già impressionanti. In Indonesia e in Bangladesh sono stati trattenuti rispettivamente oltre 400 e 500 milioni di dollari di salari".

"Chiediamo che questo impegno sia pubblico attraverso la sottoscrizione di una 'assicurazione salariale'- sottolinea Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti- Questo significa utilizzare la propria capacità di influenza quali committenti delle catene globali di fornitura per sollecitare fondi, fornire contributi diretti e collaborare con altri attori - ad esempio con l'Ilo - per garantire i pagamenti dovuti ai lavoratori interessati dalla crisi". Dal lancio di questa proposta lo scorso giugno, la Clean Clothes Campaign ha già contattato decine di marchi, iniziando in alcuni casi un dialogo costruttivo.

"Accogliamo con favore le azioni intraprese da alcuni marchi in questi mesi- dichiara Christie Miedema, della Clean Clothes Campaign- Stiamo chiedendo a ciascuno individualmente un impegno pubblico per evitare che in una situazione in cui tutti hanno delle responsabilità, nessuno se ne faccia carico aspettando che sia qualcun altro ad occuparsene. Solo così saremo in grado di porre fine alla malsana abitudine di scaricare i rischi e le responsabilità lungo la catena di fornitura lasciando che alla fine a pagare siano sempre i lavoratori". (DIRE)

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)