Covid, “al Pio Albergo Trivulzio peggio che nel 1300 durante la peste”

L'associazione Felicita deposita l'atto con cui si oppone all'archiviazione dell'inchiesta sui morti per Covid-19 al Pio Albergo Trivulzio di Milano. Finora “neppure un gesto simbolico o una richiesta di scuse dalla direzione del Pat che avrebbe aperto la via della riconciliazione e mitigare la sofferenza delle vittime dirette e indirette”

Covid, “al Pio Albergo Trivulzio peggio che nel 1300 durante la peste”

Nelle prime settimane di pandemia al Pio Albergo Trivulzio non furono adottate nemmeno “le regole basilari” e di “buon senso” per evitare i contagi. Regole che “nel 1300 sono state adottate a Milano, sotto il governo dei Visconti, e che consentirono alla città di uscire quasi indenne dall'epidemia di peste che infieriva in tutta Europa”. È quanto sostengono i legali di Felicita, l'associazione dei parenti delle degli ospiti del Pat morti per il Covid-19, nell'atto in cui si oppongono all'archiviazione dell'inchiesta, in cui è indagato il direttore generale del Pat Giuseppe Calicchio con l'accusa di epidemia colposa e omicidio colposo. Un'archiviazione richiesta dalla stessa Procura della Repubblica che ha condotto le indagini. Secondo gli avvocati di Felicita (lo studio Lsm & Associati), proprio i risultati delle indagini, invece, fanno emergere “un articolato quadro di condotte gravemente negligenti imputabili quantomeno alla direzione del Pat” e “un mix letteralmente letale di negligenza e incompetenza, condito da alcune scelte puntuali evidentemente e drammaticamente imprudenti”. Per queste ragioni quindi chiedono che il processo sia celebrato, per fare luce sulle responsabilità della direzione del Pat.

Sono in particolare due i comportamenti della direzione del Pat ad aver causato la morte di 103 pazienti e il contagio di oltre 500. Il fatto di non aver distribuito mascherine al personale e ai pazienti e di aver addirittura “espressamente vietato ai propri dipendenti l'utilizzo di mascherine che questi erano riusciti a procurarsi in autonomia”. Inoltre, l'aver accettato di ricoverare nel marzo 2020 “17 pazienti dell'ospedale di Sesto San Giovanni in assenza di tampone negativo” (tre pazienti poi si sono rivelati positivi al covid-19”. Secondo la Procura però tutto questo non è sufficiente a “tracciare con ragionevole certezza il percorso del virus nel suo ingresso e diffusione nella stuttura del Pat” e quindi a stabile un nesso causale tra le scelte della direzione della struttura e il diffondersi del Covid-19.

I parenti delle vittime però non sono disposti ad accettare le conclusioni della Procura. Anche perché “gli elementi di indagine appaiono abbastanza chiari nell'individuare un atteggiamento soggettivo, da parte della dirigenza del Pat, non tanto di confusione di fronte all'ignoto, quanto piuttosto assimilabile quasi ad una strategia, finalizzata ad occultare la gravità della situazione, a scapito della salute e dell'incolumità dei pazienti e dei dipendenti”. La direzione del Pat pareva “nel primo periodo di diffusione dell'epidemia, preoccupata soprattutto di evitare allarmismi” e “diretta ad occultare più che a risolvere le difficoltà”. Per gli avvocati “difficilmente si sarebbe potuto fare di peggio”.

Gli avvocati poi fanno notare che nei mesi successivi il Pat non ha preso le distanze da quanto è accaduto e non ha “fatto neppure un gesto simbolico, una richiesta di scuse, un segnale di vicinanza che potesse, in qualche modo, aprire la via a una riconciliazione, mitigando le sofferenze delle vittime dirette e indirette”.

Ora spetterà al giudice delle indagini preliminari decidere se archiviare l'inchiesta o rinviare a giudizio la dirigenza del Pat.

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)