Covid19. Così gli emarginati sono caduti nella trappola del virus

Intervista a padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, in occasione dell’uscita del volume scritto con Chiara Tintori che esplora le difficoltà dei più fragili durante la pandemia. “Ora non ripetere errori del passato: accompagnare i più fragili con prevenzione, strutture dedicate e vaccini”

Covid19. Così gli emarginati sono caduti nella trappola del virus

Le file di italiani, migranti e rifugiati, davanti alla mense per un pezzo di pane, la fame che torna a mordere le città, le scuole chiuse come ferita collettiva, il lavoro incessante di operatori e volontari. Mentre l’Italia si appresta ad affrontare quella che da molti viene definita la terza ondata di contagi da Covid 19, tra zone rosse e nuovi lockdown, esce in libreria “La Trappola del virus” un saggio scritto da padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli e da Chiara Tintori, politologa. Il volume ripercorre i primi mesi dell’epidemia mettendo al centro della narrazione gli ultimi e gli emarginati. Vittime due volte, perché tagliati fuori dal sistema sanitario e di assistenza, ma anche per la limitazione di alcuni diritti che più di altri hanno dovuto subire. 

Padre Ripamonti, nel libro lei sottolinea come la pandemia abbia reso visibili quelli che normalmente chiamiamo “invisibili”: nei giorni di chiusura, con le strade vuote, erano gli unici a popolare le città. E ad ingrossare le fila di chi veniva a chiedere aiuto, insieme a molti italiani. Cosa avete visto dal vostro punto di vista privilegiato, quello del Centro Astalli?

Durante la pandemia ci sono state diverse fasi: nel primo lockdown, tra marzo e aprile, abbiamo visto quelli che consideriamo invisibili frequentare le città. Tolte le altre persone, erano rimasti solo loro. Spesso andando in centro, a Roma, ci si accorgeva in maniera evidente che a ogni angolo c’era una persona diversa, una persona che vive in strada sempre. Nelle altre fasi ci siamo resi conto che le difficoltà per queste persone erano evidenti anche rispetto alle regole che la pandemia ci stava imponendo. Non possono rispondere all'indicazione ‘io resto a casa’ se una casa non la hanno, non possono fare l’isolamento fiduciario o il lockdown, ma anche semplicemente lavarsi le mani, igienizzarsi o reperire mascherine. In questo il ruolo del terzo settore è stato quello di sottolineare le difficoltà delle persone ai margini alle istituzioni. Abbiamo cercato di stimolare una risposta anche verso queste categorie che la pandemia stava affliggendo. 

Queste persone, dunque, sono cadute nella trappola del virus. Nel libro si mostra come questo sia dovuto anche  agli sbagli del passato, per esempio a politiche migratorie poco lungimiranti.

Pensiamo a chi era sul territorio da irregolare, per esempio. A molte persone negli ultimi mesi non hanno accettato la domanda di permesso di soggiorno o il rinnovo, per effetto dei decreti sicurezza. Questa è stata una difficoltà ulteriore nel momento in cui è esplosa la pandemia. Chi non aveva il permesso soggiorno e ammortizzatori sociali si è trovato messo in un angolo. Gli effetti delle politiche securitarie hanno dunque acuito il problema di molti durante l’emergenza. E questo anche per ciò che riguarda l’aspetto sanitario.

Quale lezione non abbiamo imparato dalla pandemia?

Non abbiamo imparato che la povertà incide anche dal punto di vista sanitario: le persone si ammalano di più e sono meno controllabili se si trovano in condizioni di marginalità. E quindi se il virus entra in un contesto di persone svantaggiate le trova già in difficoltà ed è meno gestibile. Noi lo abbiamo visto, per esempio rispetto ad alcuni ragazzi del Mali che sono arrivati in Italia in condizioni buone di salute e dopo due tre anni di vita ai margini hanno visto la loro salute peggiorare. A questo si sono aggiunti stati di depressione,  ansia, problemi allo stomaco e respiratori legati alla vita in strada. Il binomio povertà e salute è fondamentale in questo momento, è in questi contesti che bisogna fare maggiore prevenzione. Questo purtroppo non lo abbiamo ancora capito. 

Stiamo ancora immersi totalmente nella pandemia. Cosa si può e si deve fare ora per non ripetere gli stessi errori?

Per quanto riguarda le persone vulnerabili, una cosa importante ora è individuare strutture ponte che permettano l’ isolamento fiduciario nei casi positività o di contatto sospetto. Va facilitato l'accesso a chi vive in strada in queste  strutture, bisogna fare tamponi e continuare ad accompagnare chi è in difficoltà. Perché il rischio è che la pandemia crei ulteriori problemi a queste persone, dal punto di vista sanitario e psicologico. Va potenziata la medicina del territorio. Ci sono tante realtà che assistono chi vive in strada, bisognerebbe metterle nella condizione di poter continuare le attività attraverso un supporto reale. Questo rappresenta un aiuto alla collettività tutta: se ci si prende cura di queste situazioni di marginalità si circoscrivono i cluster, si fa prevenzione. Queste cose ormai le sappiamo, dovremmo agire fin da subito.  

Si parla molto del piano vaccinale, il Centro Astalli, insieme ad altre associazioni ha chiesto di inserire anche migranti e rifugiati. Perché è  importante?

In questi giorni stiamo vedendo come l’accaparramento dei vaccini da parte dei paesi più ricchi tagli fuori i più poveri. Questo si verifica anche nelle città, i vaccini vanno prima a noi e poi agli altri. Invece bisogna programmare, per il bene della collettività, un piano che  contempli anche le persone emarginate. Lo abbiamo chiesto in una lettera inviata al ministro Speranza. E’ un diritto per loro e un dovere per il bene di tutti. 

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)