Da Kursk il governo ucraino lancia messaggi all’Occidente. Nota geopolitica
A giudicare dal frangente, ci pare che la mossa di Kiev sia stata concepita prevalentemente per ravvivare l’interesse dei partner occidentali sulle capacità belliche ucraine
Dopo la fiammata dei primi giorni, l’avanzata ucraina nell’oblast russo di Kursk si è sostanzialmente stabilizzata. Diversamente, sul fronte del Donbass la spinta russa accelera, probabilmente a causa della scelta di Kiev di concentrare risorse nella sorprendente offensiva a nord. Proviamo a decifrare il significato dell’iniziativa, alla luce dell’utilità effettiva e ragionando sulle rappresentazioni con cui essa è stata narrata nonché recepita.
Alquanto significativi i cambiamenti della versione data dal governo ucraino: dapprima si è parlato dell’intento di occupare in prospettiva di uno scambio territoriale. Ora invece, visti gli sviluppi, si parla di un attacco preventivo volto a creare un cuscinetto utile a inibire eventuali invasioni russe da nuovi versanti. Tuttavia, scontata la sproporzione tra l’oblast russo e i territori ucraini controllati dalle forze russe, un conto è una incursione, un altro è un’occupazione stabile. Difficile immaginare che a Kiev non fossero consapevoli della differenza in termini di fattibilità visti gli uomini e i mezzi a disposizione.
Altra spiegazione percorsa in questi giorni riguarda l’alleggerimento della pressione in Donbass, ossia l’indurre la Russia a sguarnire il fronte est per difendersi. Ma avrebbe avuto senso se quest’ultima avesse dispiegato tutto il suo esercito in Ucraina, quando invece è nota l’abbondanza di effettivi di cui dispone Mosca.
Qualcuno ha potuto pensare al tentativo di traumatizzare la società russa e così aizzarla contro il Cremlino. Eppure – come Zelensky stesso ha potuto sperimentare nel 2022 – un attacco può risaldare il consenso attorno a chi guida la difesa comune. Contro un nemico che, a questo punto, nell’ottica russa, non è più soltanto l’Occidente manovratore di Kiev, ma l’Ucraina in sé. A maggior ragione se, come è stato adombrato, l’obiettivo sta nel minacciare la centrale nucleare dell’oblast (invero troppo distante da controllare, ma ora a tiro di droni e artiglieria). Inoltre è il caso di notare che proprio Kursk riveste un valore simbolico pari a Stalingrado nell’epopea della “Grande Guerra patriottica” contro la Germania nazista.
Forse c’entra lo snodo di Sudzha, da cui si dirama il tratto di gasdotto che, passando sul territorio ucraino, ancora sta rifornendo l’Europa. Mosca, viste le vertenze contrattuali aperte con Kiev già nel 2005, da tempo progetta di dismettere aggirando il pedaggio ucraino a nord via Baltico (donde il NordStream) e a sud via Mar Nero (donde il SouthStream e il TurkStream), con il forte disappunto degli Usa e dell’Ucraina stessa. Anche qui c’è un ma: per minacciare il flusso, tenendo sotto scacco i partner europei energivori più tiepidi nel sostenere lo sforzo bellico, all’Ucraina sarebbe stato sufficiente agire sul transito domestico dei tubi.
A giudicare dal frangente, ci pare che la mossa di Kiev sia stata concepita prevalentemente per ravvivare l’interesse dei partner occidentali sulle capacità belliche ucraine. Un segnale sta nelle parole di Zelensky che, sin dai primi successi dell’invasione, ha invocato l’urgenza di sostenerla con armi d’offesa e senza vincoli d’uso. Insomma, un atto dimostrativo indirizzato all’Occidente, per affermare che “si può fare”; una logica accelerazionistica, disposta a giocarsi momentaneamente altro territorio sul fronte interno, comunque destinato a cedere nel lungo termine, per superare l’ennesima linea rossa e incoraggiare la Nato a coinvolgersi di più.
Un rilancio viepiù motivato dall’approssimarsi delle presidenziali Usa. Kiev infatti si muove in funzione delle dinamiche elettorali statunitensi, tanto da aprire a ipotesi negoziali con Mosca all’indomani dell’attentato a Trump per poi lanciare l’offensiva in cantiere, appurando che l’investitura di Harris promette qualche chance per il futuro.
Ma per misurare l’efficacia della mossa occorre fare i conti con le reazioni dei destinatari del messaggio. La Francia, dopo i toni arrembanti degli ultimi mesi, per ora tace. L’Italia, conservando il segreto sulle armi inviate, nicchia sull’ipotesi di rimuovere ufficialmente sui vincoli d’uso. La Germania ha di recente approvato una bozza di bilancio che dimezza gli aiuti militari dal prossimo anno. Per altro verso, il Pentagono accompagna l’ultimo pacchetto di armi e di sanzioni varato dalla Casa Bianca con un curioso comunicato in cui, pur ignorandone la direttrice strategica, si dice fiducioso nel piano offensivo di Kiev, mentre diverse testate di primordine si convertono a un inedito scetticismo sull’affidabilità politica e militare ucraina. Polonia e Paesi baltici esultano, mentre in Gran Bretagna (dai cui centri di addestramento pare provenire un buon numero di unità spedite a Kursk) la stampa invita tutta la Nato a osare di più, interpretando come debolezza la mancata attivazione della difesa nucleare della Russia contro l’invasione nel suo oblast (ma si dà il caso che la dottrina militare russa ne prevede il ricorso in caso di minaccia esistenziale alla Federazione, che non equivale a spararsi sui piedi una testata atomica per fermare un’incursione sul confine).
Sull’efficacia della mossa di Kiev dirà molto il vertice tra ministri di difesa ed esteri Ue che dovrebbe tenersi in settimana, per discutere il “formale” invio sul territorio ucraino di istruttori militari, secondo un documento che fissa la decisione entro novembre, scadenza della missione di addestramento Eumam Ukr, non a caso coincidente con il momento in cui si conoscerà il futuro inquilino della Casa Bianca.
Le prossime settimane potranno dire quanto il messaggio di Kursk avrà unanimemente galvanizzato i reali destinatari, suscitando o meno l’escalation in cui il governo di Kiev ripone la speranza dell’unica via d’uscita. Unica, certo, se ci si affida alla grammatica esclusiva delle armi.
Giuseppe Casale*
*Scienze della Pace – Pontificia Università Lateranense