Dal Mar Nero all’Oceano Pacifico: la rotta dell’egemonia globale

La posta in gioco è il controllo delle rotte nell’Indo-Pacifico. Per esse oggi transita il 60% dei flussi commerciali mondiali.

Dal Mar Nero all’Oceano Pacifico: la rotta dell’egemonia globale

Il ministro degli esteri di Pechino ha appena minacciato guerra se la riunificazione del popolo cinese verrà sfidata dalla dichiarazione di indipendenza di Taiwan. Anche questo suggerisce di allargare l’angolo visuale per inscrivere l’Ucraina nelle dinamiche globali, tenendo traccia dell’obiettivo primario dell’agenda di Washington, che certamente non si localizza nelle latitudini del Mar Nero. Per evitare che il divorzio tra Mosca e l’Europa non avvantaggi la Cina, la Casa Bianca auspica di consegnarle il partner russo logorato e, se possibile, destabilizzato. Eppure, la continenza usata nel fornire supporto “indiretto” a Kiev non può applicarsi al genere di reazioni da mettere in campo qualora la Cina, unico antagonista omologo degli Usa, tentasse di forzare i limiti geopolitici per essa contemplati.

La posta in gioco è il controllo delle rotte nell’Indo-Pacifico, talmente nevralgiche da spingere il Giappone ad attaccare Pearl Harbor nel 1941. Per esse oggi transita il 60% dei flussi commerciali mondiali, consentendo alla talassocrazia Usa di contenere l’hard power cinese mediante il blocco navale allestibile lungo la cintura insulare dal Giappone a Singapore. Pechino ha tollerato la morsa sino a quando non sono svanite le desistenze reciproche in funzione anti-sovietica. Segnatamente, negli ultimi anni il clima è tornato a scaldarsi sulla questione di Taiwan, la Cina nazionale, da sempre gravida di significati simbolici (stante la frustrazione per il “risorgimento cinese” incompiuto) cui si sovrappone l’obiettivo di annettere una piattaforma con cui perforare la cortina antistante le coste continentali.

Nulla che sorprenda Washington, tant’è che dal 1979 il Taiwan Act impegna Casa Bianca e Congresso a rispondere a un eventuale attacco militare all’isola, facendone un protettorato di fatto. D’altronde, le incursioni nello spazio aereo taiwanese degli scorsi mesi e la recente esercitazione aeronavale sino-russa esprimono il disappunto di Pechino anche per le alleanze regionali a trazione occidentale promosse allo scopo di arginare la sua sfera d’influenza nel Sudest asiatico. Su tutte il Quadrilateral Security Dialoque, inaugurato nel 2017 tra Usa, Giappone, Australia e India. Ma il vertice Qsd di fine maggio ora rivela importanti accelerazioni, anche espungendo il clamore sull’esternazione di Biden a proposito dell’intervento militare statunitense in caso di iniziative annessionistiche su Taipei. Rileva lo scalo del presidente Usa a Seul, con l’intento di insistere per l’adesione della Corea del Sud, trattenuta dal timore di guastare i rapporti economici con Pechino. Inoltre, a margine del summit è stato lanciato l’Indo-Pacific Economic Framework, in cui coinvolgere gran parte dei membri Asean per sottrarli agli accordi commerciali con la Cina e ingaggiarli in programmi di sviluppo per un’ampia gamma di infrastrutture critiche. Soprattutto, nell’incontro di Tokyo si sono discusse le modalità per contrastare gli aggiramenti russi alle sanzioni e fronteggiare le rivendicazioni marittime cinesi calendarizzando nuove esercitazioni.

Dunque la morsa attorno alla Cina si stringe ulteriormente, a un mese dell’accordo di assistenza per la sicurezza interna siglato da quest’ultima con il governo delle Isole Salomone, a rischio golpe nel novembre 2021. Con tale mossa il Gigante ha saputo scavalcare la cintura contenitiva portandosi nei pressi delle acque australiane. Immediata la risposta di Washington, che ha promesso guerra in caso di installazioni di basi navali cinesi nel Pacifico, tornando ad aggiornare i “trattati di libera associazione” con Micronesia e Isole Marshall per potenziarne le opzioni di accesso militare.

La dinamica stimola il paragone con l’espansione della Nato in Ucraina, trovando Usa e Cina attestati su logiche geopolitiche specularmente invertite: i primi revisionisti nell’est Europa e conservativi nel Pacifico, la seconda viceversa. Incoerenze? Così pare, se si accreditano le “questioni di principio” propagandate da ambo le parti. Ma nell’ottica di entrambi i contendenti, Pechino sta a Taipei non come Mosca sta a Kiev: la proporzione strategica dei due rapporti è indubbiamente squilibrata, al pari dei rapporti costi/benefici rispettivamente implicati, smentendo una volta di più l’illusione di avere archiviato nel 1991, assieme all’equilibrio di potenza, anche lo scontro egemonico. Oggi il mondo cambia di nuovo. O forse no: la guerra russo-ucraina, come tessera di un vasto mosaico, conferma brutalmente la persistenza di paradigmi creduti superati dall’opinione pubblica occidentale – invero, da tempo particolarmente “distratta”, probabilmente per inclinazioni autoassolutorie. Ciò nonostante, sulle rotte di collisione può ancora intervenire il freno dei “gregari” meno ebbri e più danneggiati dai cortocircuiti delle interdipendenze complesse. Almeno questo possiamo auspicarlo.

Giuseppe Casale*

*Pontificia università lateranense

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Fonte: Sir