Dallo sgombero di Scorticabove all’ex Felandina: Mahdi e gli esclusi “per legge”

Molti dei lavoratori stagionali mandati via dall’insediamento di Metaponto di Bernalda hanno già subito uno sgombero in passato. Tra loro 40 sudanesi provengono dalla storica occupazione romana, ma ci sono anche le persone cacciate da San Ferdinando e chi ha avuto la revoca dell’accoglienza per effetto del decreto sicurezza.

Dallo sgombero di Scorticabove all’ex Felandina: Mahdi e gli esclusi “per legge”

ROMA - “Forse è solo un triste destino, forse la sfortuna ha deciso di non abbandonarmi, di certo ovunque vado c’è uno sgombero”. Lo dice con il sorriso amaro di chi non riesce a trovare una soluzione, Mahdi, dopo che il suo ricovero di fortuna dentro l’ex Felandina, l’insediamento informale di  Metaponto di Bernalda, in provincia di Matera, è andato distrutto. Due giorni fa, infatti, la struttura dove vivevano circa 130 lavoratori stagionali, è stata evacuata: l’ordine è arrivato dopo che una donna a inizio agosto ha perso la vita dentro l’insediamento informale. Ma dopo lo sgombero non è stata offerta alle persone una reale soluzione alternativa, e così c’è chi vive in strada e chi sta pensando di spostarsi in uno degli altri ghetti che sorgono intorno ai campi di raccolta agricola. 
“In questi giorni mi sto appoggiando da un amico, ma mi sposterò presto a Palazzo San Gervasio perché qui non so più dove stare”, spiega Mahdi. Arrivato in Italia nel 2008 e rifugiato politico, per 8 anni ha vissuto a Roma, in  via Scorticabove, nella storica struttura ( un ex centro di accoglienza occupato) dei sudanesi nella Capitale. L’immobile è stato sgomberato nel luglio del 2018, dopo 13 anni. Dopo una resistenza in strada, durata due mesi, la comunità è stata allontanata nell’ottobre dello stesso anno anche dal marciapiede, di fronte la struttura, dove avevano creato un riparo temporaneo. E così in molti, come Mahd, hanno deciso di lasciare Roma per andare a cercare un lavoro (e un tetto) al Sud. 

Da via Scorticabove ai campi del Sud Italia

Un peregrinare senza fine e che segue ormai il corso del lavoro stagionale agricolo. In tutto i sudanesi di via Scorticabove che da Roma si sono spostati in Basilicata sono 40. “Dopo lo sgombero siamo venuti qui insieme - spiega ancora Mahdi-. Ci spostiamo dove c’è lavoro: abbiamo fatto la raccolta delle patate, dei cocomeri, dei pomodori. E’ un lavoro duro, la paga va dai 37 ai 50 euro al giorno. Ma non si riesce ad affittare una casa: le persone del posto non si fidano e siamo costretti a stare in questi ghetti, dove le condizioni sono disumane, a dir poco”. Quando era a Roma- racconta - lavorando da Mc Donald’s riusciva a mandare regolarmente i soldi a casa. Ora che ha una figlia di un anno deve lavorare il doppio per riuscire a spedire e qualcosa alla famiglia, perché il lavoro stagionale non è sempre garantito. “Sogno di portarli un giorno qui ma dopo lo sgombero ho problemi anche a rinnovare il permesso di soggiorno, perché non ho più la residenza, che ho avuto per anni a via Scorticabove. Ho l’asilo, sono regolare, come gli altri miei amici sudanesi. Il nostro problema è che non sappiamo dove stare: abbiamo bisogno di una casa, potremmo affittarcela per vivere insieme come quando stavamo a Roma. Ma nessuno si fida di noi”.  

Dalla Libia ai ghetti del Sud dopo aver perso la protezione umanitaria

Sfruttati lavorativamente e costretti a passare di ghetto in ghetto come Mahdi nell’ex Felandina c’erano diverse personei: c’è chi è stato spinto fuori dalle grandi città da uno sgombero chi ha subito gli effetti del Decreto sicurezza, perdendo la protezione umanitaria e la possibilità di essere accolto in un centro. Come Zaberu, originario del Niger, arrivato dalla Libia nel 2011. Ha iniziato a lavorare come bracciante agricolo spostandosi di città in città secondo le stagioni. “Ho lasciato il centro e non avendo un posto dove stare ho iniziato a spostarmi tra Cassibile, Foggia, Reggio Calabria, Metaponto”. A ottobre, mentre stava lavorando a Cassibile il campo informale dove viveva è stato sgomberato e così anche lui si era spostato nell’area del metapontino. 

Esclusi per legge, braccianti agricoli per necessità

Espulsi dai centri o dalle città in molti diventano stagionali per necessità. “Anche in bassa stagione nell’area di Bernalda di Metaponto ci sono sempre molte persone, almeno 200 - spiega Irene Laino, advocacy manager di Medici senza frontiere, che da alcuni mesi ha attivato un nuovo progetto in Basilicata. “ Sono soprattutto sudanesi, nigeriani, ma ci sono anche altre nazionalità. Sono tutti lì per lavorare ma sono arrivati  per diverse ragioni, non solo lavorative. La struttura, progettata come polo industriale, ha 6 capannoni, ognuno era stato occupato da persone di nazionalità diversa: in uno di questi abbiamo incontrato circa 80 sudanesi, la metà dei quali erano arrivati dopo aver subito lo sgombero a Roma. Dal nostro monitoraggio abbiamo appurato che tantissime persone venivano o da un altro insediamento che era stato evacuato, tra cui Cassibile e San Ferdinando, o da centri di accoglienza in cui non avevano più diritto a stare, dopo la revoca della protezione umanitaria. Molte di queste persone non erano lavoratori stagionali ma lo sono diventati nell’ultimo anno”. Effetti del decreto sicurezza, ma anche di una stretta sul controllo delle frontiere. “Tra le storie che abbiamo raccolto - continua Laini - c’è quella di un ragazzo che ha provato a passare la frontiera, è stato respinto e riportato fino a Crotone in autobus”. 

Senza soluzioni alternative si rischia il proliferare di nuovi insediamenti informali

Il lavoro nell’insediamento di Msf è cominciato lo scorso 4 luglio, in collaborazione con l’Azienda sanitaria di Matera. Nel corso dei due mesi di attività, l’organizzazione ha effettuato più di 400 visite mediche riscontrando che più di un quarto dei pazienti manifestava dolori e infiammazioni muscolo-scheletriche collegabili alla tipologia di lavoro svolto. In 55 casi sono state riscontrate patologie dermatologiche attribuibili alle scarse condizioni igienico-sanitarie nell’insediamento o al possibile contatto con prodotti chimici nocivi. Inoltre, a circa 60 pazienti sono state diagnosticate patologie di natura gastrointestinale dovute anche allo scarso accesso a fonti d’acqua potabile e alle condizioni igieniche precarie. “Nonostante siano quasi tutti regolari, titolari di un permesso di soggiorno o di un contratto di lavoro - aggiunge Laino- molti hanno problemi ad accedere al sistema sanitario perché se hanno subito uno sgombero hanno problemi di residenza, in alcuni casi provano a chiedere la residenza fittizia ma dovrebbero prima recarsi nella città, dove avevano il domicilio per dismettere la precedente, e restano scoperti”. Dopo lo sgombero dell’ex Felandina alcuni dei ragazzi hanno trovato ospitalità da amici, altri stanno valutando di spostarsi a Palazzo San Gervasio dove la situazione potrebbe diventare emergenziale nel giro di poco tempo. “Il rischio è che ora si formino dei nuovi insediamenti - continua - quest’anno la stagione della raccolta dei pomodori in quell’area inizierà più tardi, secondo le stime potrebbe esservi una presenza anche di mille persone”. Francesco Di Donna, coordinatore medico dei progetti di Msf in Italia pur riconoscendo l’insalubrità dell’ex Felandina sottolinea come “gli sgomberi senza soluzioni abitative alternative non possano essere considerati misure sostenibili perché aggravano le vulnerabilità di queste persone e i rischi per la loro salute”.“Sebbene la presenza di migranti impiegati nel settore agricolo nell’area del metapontino sia un fenomeno di lunga data si continua a trattarlo in modo emergenziale con vane promesse e sgomberi senza alternative - aggiunge -. Sono invece necessarie soluzioni strutturate che tengano conto dei bisogni e diritti fondamentali delle persone”.

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)