Dopo la fuga da Odessa Nelia vuole solo tornare a casa

Nelia Covali, rifugiata ucraina a Chisinau vive nell’attesa che il conflitto finisca. Per molti scappare dalla guerra non significa cominciare una nuova vita, ma aspettare in un limbo di tornare prima possibile a quel che resta della propria.

Dopo la fuga da Odessa Nelia vuole solo tornare a casa

Le storie dei profughi ucraini sono storie di famiglie divise, di figli lontani dai padri e di mogli distanti dai mariti. Il primo passo è fuggire alla morsa feroce delle bombe e dei proiettili russi, riuscendo a lasciare il proprio paese sotto attacco. Il sollievo di essere salvi però non è sufficiente a colmare il dolore per essere stati costretti, inaspettatamente, a lasciarsi tutto ciò che si ha di caro alle spalle: la propria casa, i propri affetti, la propria vita. A darne testimonianza è Nelia Covali, rifugiata ucraina che insieme al figlio Nikita è ospitata da una famiglia nella capitale moldava Chisinau.

Siamo preoccupatissimi per tutto. Noi siamo qui, siamo ‘in pace’, siamo usciti dall’Ucraina e la Moldavia ci sta offrendo cibo, prodotti e il necessario, anche vestiti per Nikita. Abbiamo una famiglia che ci sta ospitando gratuitamente, ma tutto il giorno non facciamo che controllare le notizie e gli aggiornamenti, non facciamo che parlare con i nostri parenti per controllare che stiano bene. Mia madre, mio marito e mio fratello sono ancora a Odessa. Mio padre è a Chornobaivka e per tutto questo tempo, da quando è iniziata la guerra, ha vissuto in un seminterrato. Sua moglie e la nipote hanno lasciato quel posto ma sono ancora in Ucraina, stanno cercando di fuggire. Ora lui è solo, è quasi cieco e non può lasciare la casa perché tutto ciò che ha è lì. Non c’è nessuno che renda disponibili cibo e beni di prima necessità regolarmente in quelle zone. Tutto è costosissimo. Il costo medio di tutto è quintuplicato, lo zucchero è costosissimo, tutto è costosissimo e le merci mancano”.

Ricordare la fuga significa, per Nelia, riportare alla mente momenti che lasciano un segno doloroso soprattutto sui più piccoli, come suo figlio: “Con mio figlio abbiamo fatto i bagagli, a Odessa, in trenta minuti. Insieme i nostri vicini abbiamo lasciato le nostre case e ci siamo diretti in Moldavia. Era il 2 marzo. Abbiamo passato una notte in un villaggio lungo la strada, perché non era possibile raggiungere subito il confine. Il 3 marzo, di sera, siamo arrivati a Chisinau. Mio figlio era terrorizzato, quando siamo arrivati non parlava e ad ogni suono che sentiva, che fosse un’ambulanza o un autobus, urlava mamma e voleva rifugiarsi nel seminterrato”.

Ora Nikita sta meglio, ha ricominciato a parlare e a giocare, avendo trovato un amico nel coetaneo Luca, il figlio di Elena, la volontaria moldava che sta ospitando a casa sua lui e Nelia. L’accoglienza dei rifugiati ucraini nella Repubblica di Moldavia si fonda proprio sull’enorme solidarietà della popolazione. In Moldavia, un paese piccolo e in difficoltà economiche già da ben prima dello scoppio del conflitto in Ucraina e della conseguente crisi umanitaria, sono attualmente presenti oltre 95mila profughi. Più del 90% dei rifugiati è ospitato privatamente da famiglie, il restante alloggia nei 96 centri di accoglienza gestiti da ONG e istituzioni governative.

Per quanto gran parte dei rifugiati ucraini in questo paese si trovi a vivere nel calore di una casa, con una famiglia, nulla potrà mai colmare il vuoto lasciato dalla lontananza della propria casa e famiglia. Gran parte delle persone che da Odessa sono scappate in Moldavia e che lì decidono di rimanere lo fanno proprio perché non si vogliono allontanare. La fuga dalla propria città è stata l’interruzione della propria vita, a cui non può seguire l’inizio di una nuova, ma solo la trepidante attesa di riprendere quel che resta della propria.

“Vogliamo così tanto tornare a casa, a Odessa. Non stiamo pianificando di migrare da qualche altra parte. Aspetteremo ancora un po’, sperando con tutto il cuore che presto potremo tornare a casa. Nikita deve cominciare la scuola l’anno prossimo, ma non sappiamo ancora come organizzarci. Avevamo una vita, con amici, con le attività di Nikita, la sua preparazione per andare a scuola. Ora non ci resta altro che aspettare, giorno per giorno, la fine della guerra”.

 Francesca Campanini

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