Gerusalemme. Pace e rifugio, in una parola: casa

A Gerusalemme, controllare lo spazio significa controllare la composizione demografica e gli effetti delle politiche urbane d’Israele sono evidenti nel quartiere Silwan: i palestinesi vedono demolire i loro negozi e abitazioni, altri vengono cacciati per far “posto” agli israeliani

Gerusalemme. Pace e rifugio, in una parola: casa

A un anno e mezzo dalle tensioni causate dagli sfratti delle famiglie palestinesi del quartiere di Sheik Jarrah, che nel
2021 hanno infiammato Gerusalemme e acceso la miccia della guerra degli 11 giorni a Gaza, le politiche del ministero delle Costruzioni e dell’edilizia abitativa israeliano continuano a prendere di mira diversi angoli della città. Tra i target c’è Silwan, quartiere situato tra le mura meridionali della Città Vecchia e il muro di annessione che circonda Gerusalemme. I margini settentrionali del quartiere coincidono con quello che oggi è diventato il parco archeologico della Città di David, in cui la Fondazione Ir David, conosciuta come El’ad, investe fondi e collabora con il Comune di Gerusalemme per l’ampliamento degli scavi e l’insediamento di israeliani. A un paio di chilometri di distanza, nella zona di Jabal Batin alHawa, è l’organizzazione Ateret Cohanim a comprare la terra in cui demolire le case palestinesi. L’obiettivo delle fondazioni, dichiarato esplicitamente in particolare dalla seconda, è di stabilire una comunità ebraica nell’area cancellando la presenza palestinese. «A oggi ci sono circa 180 ordini di demolizione emessi dal tribunale – racconta Khaled Abu Tayeh, attivista e membro del Comitato di difesa della terra di Silwan – Solo lo scorso mese ne sono arrivati venti che impongono la distruzione di case e negozi. Gli edifici non sono ancora stati demoliti, ma i proprietari vengono intimati ad abbattere le loro case. Nel caso in cui non lo facciano loro ci penserà il Comune di Gerusalemme e le famiglie saranno costrette a ripagare anche il denaro speso dalle autorità per la demolizione». Senzatetto, indebitati e senza nessun tipo di assistenza, queste sono le condizioni in cui sempre più famiglie palestinesi versano a Silwan. Una volta avvenuta la demolizione c’è chi decide di costruire un’altra casa nei pressi della prima, perché non ha alternativa. Non c’è spazio negli altri sobborghi di Gerusalemme e lasciare la città trasferendosi in West Bank significa perdere il blue id, cioè lo status di residente permanente nella città. C’è anche chi non può permettersi di costruire un’altra casa e quindi continua a vivere nelle rovine di quella demolita. È il caso di cinque famiglie che il 10 maggio, nell’arco di quattro ore, hanno visto distruggere le loro case. Da allora 25 persone vivono insieme nell’unica stanza rimasta in piedi e in una baracca creata con materiale a basso costo, venendo ripetutamente minacciate dalla polizia israeliana perché non avevano il permesso di costruire quello che da maggio è l’unico “tetto” che hanno sulla testa. Impegnati nei tentativi di resistenza alle demolizioni, gli abitanti di Silwan si trovano quotidianamente a contatto con gli israeliani che abitano le case da cui sono stati cacciati e con forze di polizia di frontiera che pattugliano le strade e arrestano gli uomini che protestano e i bambini che sono soliti lanciare pietre. «Cercano di toglierci ogni opzione per resistere – aggiunge Khaled Abu Tayeh – Se ti opponi a una demolizione vieni arrestato, se chiedi aiuto vieni arrestato, se io pubblico qualcosa sui miei canali social vengo chiamato dalla polizia per degli interrogatori. Io sono stato arrestato addirittura perché ho cercato di difendere il cimitero in cui sono sepolti i miei cari. Il piano del Comune di Gerusalemme è quello di costruire sopra il cimitero islamico del quartiere un’estensione della Città di David, mi è stato imposto il divieto di recarmi sul posto. Io ci sono andato, mi hanno arrestato e detenuto per 24 ore». A finire nei centri di detenzione sono anche i bambini, soprattutto a Jabal Batin alHawa, area di Silwan che l’avvocato e attivista Ameer Maragha descrive come «uno dei posti più pericolosi di Gerusalemme, perché in altre zone i coloni vivono isolati, qui invece sono dentro al quartiere, ci sono quattro palazzi abitati da israeliani. Loro hanno le pistole e sono protetti dalla polizia di frontiera e dalle forze di sicurezza private che vengono pagate da Ateret Cohanim». Camminando per le strade della zona Ameer Maragha aggiunge: «Se chiedi a qualunque bambino qui se è mai stato arrestato ti risponderanno di “sì”, anche più di una volta. Finiscono in appositi centri di detenzione per minori, dove la polizia israeliana li tratta come se fossero adulti, oppure agli arresti domiciliari, anche per un anno». A causa delle condizioni di tensione costante, degli scontri con la polizia e degli arresti, questi bambini saltano lunghi periodi di scuola e quando diventano adulti, avendo già la fedina penale “sporca”, non trovano lavoro. Per questo la maggior parte della gente di Silwan lavora come muratore nel campo dell’edilizia, le altre professioni non sono accessibili. «Così i ragazzini prima o poi “esploderanno” – conclude Khaled Abu Tayeh - Vedono le loro case demolite, i loro padri, fratelli e vicini di casa arrestati… tutto questo prima o poi li farà esplodere a causa della pressione, della frustrazione, non solo a Silwan, ma ovunque ci siano insediamenti».

Francesca Campanini
da Gerusalemme

Silwan, da villaggio agricolo a quartiere

Silwan o Siloam è un quartiere prevalentemente palestinese a Gerusalemme. Durante il periodo medioevale si sviluppa
come villaggio agricolo, anche se la prima menzione del villaggio risale all’anno 985. Dal Diciannovesimo secolo in poi, il villaggio fu lentamente inglobato a Gerusalemme fino a diventare un quartiere urbano. Dopo la guerra del 1948, il villaggio passò sotto il dominio della Giordania che durò fino alla Guerra dei Sei giorni del 1967: da allora è sotto il controllo di Israele. A seconda di come vengono intesi e interpretati i confini del quartiere, i palestinesi residenti a Silwan sono tra i 20 mila e i 50 mila.

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