Il Sudan tra lotta di potere e crisi umanitaria: locale non significa marginale. Nota geopolitica

Non mancano le avvisaglie di una dinamica tipica nell’Africa postcoloniale, dove le lotte di potere precipitano troppo facilmente in guerre civili, incrociando l’odio genocidiario su base etnico-religiosa.

Il Sudan tra lotta di potere e crisi umanitaria: locale non significa marginale. Nota geopolitica

I correnti scontri in Sudan hanno già causato 500 vittime, 50mila profughi e 75mila sfollati interni. Alla violazione della tregua nella capitale hanno fatto eco le violenze in Darfur, dove si sta riattivando l’odio interetnico del recente passato. Il quadro di tensioni restituisce le fratture irrisolte ereditate dal trentennale governo di al-Bashir. Salito al potere con il golpe del 1989, egli fu l’artefice delle fortune dei due attuali pretendenti alla guida dello stato: Dagalo, alias Hemedti, leader dei paramilitari delle Rsf, e al-Burhan, capo dell’esercito regolare e dal 2021 al vertice del Consiglio sovrano di Transizione. Già fiduciari di al-Bashir, entrambi parteciparono alla sua deposizione nel 2019, collaborando ancora due anni dopo nel rovesciare il governo di Hamdok.

La loro rivalità incarna la competizione tra i pilastri del precedente regime. Mentre volgeva al termine la seconda guerra civile sudanese (1983-2005) tra il nord arabo-musulmano e il sud cristiano e animista (da cui sortì l’indipendenza del Sud Sudan nel 2011), al-Bashir si trovò impegnato anche nella repressione dei ribelli del Darfur, che gli causò il mandato di cattura della Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità. Per soffocare le rivolte, si affidò ai janjawid di Hemedti, promossi a “pretoriani” utili a controbilanciare il potere del ceto militare. Trasformata in Rsf, la milizia si è perfezionata operando in Libia contro Gheddafi (colpevole del sostegno ai secessionisti darfuriani) e in Yemen in seno alla coalizione saudita: interventi decisi da al-Bashir in cambio di aiuti da Riad e di una migliore disposizione degli Usa sul nodo delle sanzioni.

La ricchezza personale, dovuta al controllo sui giacimenti d’oro, e il consolidamento del proprio contropotere oggi spinge Hemedti a proporsi come giustiziere della cleptocrazia di Khartoum, espressa dagli apparati che fanno blocco con l’esercito, premiato da al-Bashir con ingressi nell’élite dirigente per i servizi resi nel liquidare i salafiti di al-Turabi, ideologo del Fronte islamico nazionale nel 1999 rimosso manu militari dalla guida del parlamento. Il presidente infatti volle sbarazzarsi del sodale jihadista quando la sua ospitalità ad al-Qaida provocò il bombardamento Usa del 1998 e l’iscrizione del Sudan nelle liste nere dell’Occidente e della Russia, con conseguenti sanzioni e isolamento internazionale.

Il Sudan, come molte altre realtà africane, non è certo impermeabile ai campi di forze esterni. Tanto più essendo la porta di accesso all’Africa subsahariana. La Cina stessa iniziò da esso la penetrazione economica nel continente nero. Ma poiché i giacimenti di greggio si concentrano nelle regioni meridionali del Paese, a far data dalla secessione del Sud Sudan, Khartoum non rappresenta più un polo di particolare rilevanza per Pechino. Dietro la crisi attuale taluni ipotizzano piuttosto una regia russa veicolata dal Gruppo Wagner. Vero è che le Rsf godono di supporti dalla brigata di Prigozhin – quantunque questa abbia ridotto il numero degli operativi per concentrarsi sul terreno ucraino. D’altro canto serve considerare che il governo di al-Burhan solo un mese fa è tornato a riunire il tavolo tecnico per l’istallazione di una base militare russa a Port Sudan. Segno che il Cremlino mantiene i canali con entrambi i rivali, presumibilmente per congelare la contesa in modo da completare l’asse geostrategico che costituisce uno dei principali (benché scarsamente commentati) motivi del conflitto tra Russia e Usa per “interposte” Ucraina e Siria: la proiezione a sud dell’hard power di Mosca. A quest’ultima infatti si presta anche il presidio sul litorale sudanese del Mar Rosso, che consentirebbe alla Russia di inserirsi nella gestione delle rotte di Suez, in traiettoria con la presenza nel Mediterraneo orientale facente perno sui porti siriani, che a sua volta rende indispensabile per il Cremlino preservare l’agibilità del Mar Nero dall’atlantizzazione delle coste ucraine.

La destabilizzazione non giova neppure agli investimenti in loco delle monarchie del Golfo, né alla sicurezza confinaria dell’Egitto, che con il Sudan condivide anche le preziose acque del Nilo. Del pari la crisi disturba il raggio d’implementazione africana degli Accordi di Abramo, nuocendo alle attività di intelligence che Israele ha ramificato nell’area in chiave antijihadista. Più in generale, la prospettiva di vedere fuori controllo un crocevia dei flussi migratori non può non allarmare Europa e Medioriente.

Al netto di illazioni complottistiche, la crisi sudanese assume dunque i contorni di una resa dei conti tutta locale, scaturita dalla spallata tentata da Hemedti mentre le attenzioni di Washington e Mosca si concentrano sul teatro ucraino. Ma “locale” non significa marginale, quando le violenze sono capaci di far detonare l’ennesima catastrofe umanitaria. Non mancano infatti le avvisaglie di una dinamica tipica nell’Africa postcoloniale, dove le lotte di potere precipitano troppo facilmente in guerre civili, incrociando l’odio genocidiario su base etnico-religiosa. Gli ingredienti ci sono tutti, mentre gli scontri rischiano di propagarsi anche a est, nelle incandescenze etiopi, come pure nel tristemente noto quadrante dei Grandi Laghi. Per questo sulla comunità internazionale pesa l’urgenza di agire con ogni leva e, almeno stavolta, tempestivamente, anziché limitarsi a isolare l’incendio riservandosi di intervenire sulle ceneri, dopo il disbrigo di agende più “strategiche”.

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Fonte: Sir