In un Paese spaccato in due, Castillo è in vantaggio per una manciata di voti. Ferrari: “Una risposta dettata dalla disperazione”
Ventiquattr’ore sull’ottovolante. Alla fine, è il sombrero di Pedro Castillo a presentarsi in vantaggio all’ultima curva di uno scrutinio tanto clamoroso quanto la campagna elettorale che lo ha preceduto. Il confronto per le presidenziali del Perù, tra l’estrema sinistra del maestro del Cajamarca Pedro Castillo, auto-definitosi “marxista ma non comunista” e l’estrema destra di Keiko Fujimori, la figlia del dittatore Alberto, al suo terzo ballottaggio consecutivo, si risolve per una manciata di voti, e ancora non è detta l’ultima parola
Ventiquattr’ore sull’ottovolante. Alla fine, è il sombrero di Pedro Castillo a presentarsi in vantaggio all’ultima curva di uno scrutinio tanto clamoroso quanto la campagna elettorale che lo ha preceduto. Il confronto per le presidenziali del Perù, tra l’estrema sinistra del maestro del Cajamarca Pedro Castillo, auto-definitosi “marxista ma non comunista” e l’estrema destra di Keiko Fujimori, la figlia del dittatore Alberto, al suo terzo ballottaggio consecutivo, si risolve per una manciata di voti, e ancora non è detta l’ultima parola. Per gran parte dello scrutinio la Fujimori è stata in vantaggio, poi man mano che arrivavano i risultati delle sezioni rurali andine, soprattutto del centro e del sud, l’esito ha iniziato a capovolgersi.
Castillo ha un vantaggio di circa 100mila voti.
Un’unica incognita tiene ancora vive le speranze della candidata: lo scrutinio di tutti i voti delle sezioni estere, dove è stata lei a prevalere piuttosto nettamente, soprattutto negli Usa. Ma il segno che la vittoria, per Castillo cominciava a essere probabile, è stato, paradossalmente, il crollo della Borsa di Lima, di quasi dieci punti percentuali.
Lo “spettro del comunismo”. Il timore di un presidente “comunista” che vuole espropriare le imprese (cosa più volte smentita dall’interessato, che in realtà nelle ultime settimane ha ammorbidito le sue proposte), il martellamento di due mesi di campagna elettorale, le incognite sulle competenze di un presidente che per l’establishment di Lima è un vero e proprio marziano, i dubbi sulla consistenza della sua squadra e sulla sua proposta di governo, effettivamente emersi in campagna elettorale, non si cancellano certo in pochi minuti.
E il compito che attende il nuovo presidente è di quelli che fanno tremare le vene ai polsi.
Del resto, altrettanti dubbi, polemiche, incognite, anche se di segno opposto, avrebbero accompagnato una vittoria di Keiko Fujimori, che aveva promesso si scarcerare il padre dittatore, e che è stata durante l’ultima legislatura in carcere per un anno e mezzo, accusata di corruzione.
Un Paese spaccato in due. Un’analisi profonda di queste elezioni, però,
oltre alla dinamica degli opposti estremismi, porta a vedere un’altra, e più profonda frattura: quella tra Lima e le città della costa pacifica da una parte, e tra la “sierra” andina e i villaggi rurali dall’altra.
Se a Lima la Fujimori ha vinto nettamente, nelle regioni interne di Puno, Cuzco, Ayachucho, e altre, il consenso a Castillo ha raggiunto livelli plebiscitari, in qualche caso anche superiori al 90%. Un vescovo del sud raccontava ai confratelli, nei giorni scorsi, che tutti i suoi sacerdoti, anche quelli più conservatori parteggiavano per Castillo. Segni di un disagio profondo, che per troppo tempo non è stato colto.
“In generale, la gente si sente molto distante da Lima”, riflette con il Sir mons. Reinaldo Nann, vescovo della prelatura di Caravelí, nella regione di Arequipa, un territorio diviso in due non solo geograficamente, tra costa e sierra, ma anche elettoralmente. “Questo – prosegue il vescovo – è un territorio povero, con tante attività estrattive informali e un sistema agricolo tradizionale. I prodotti vengono pagati a prezzi irrisori e c’è tantissima emigrazione verso le principali città. Così prevale il voto per chi viene identificato con il cambiamento, per qualcuno di nuovo e sconosciuto. Cinque anni fa qui avevano comunque votato a sinistra, scegliendo la candidata Verónika Mendoza, ma per esempio alle elezioni parlamentari aveva vinto la destra di protesta.C’è appunto il desiderio di un cambiamento, e Castillo, con il suo sombrero, è stato percepito come ‘uno di loro’, uno ‘di provincia’.
Certo, si tratta di una protesta più emotiva che razionale, molto sentimentale e spontanea. Il consenso a Castillo è radicato soprattutto tra i campesinos, nella zona montagnosa del territorio della prelatura. Invece, nell’altra zona, vicina alla costa, ci sono molti commercianti che hanno votato per Keiko Fujimori”.
Conclude mons. Nann: “Non mi pare che Castillo abbia con la sua squadra la preparazione necessaria per governare l’economia del Paese, ma del resto non avevo fiducia neppure in Keiko Fujimori. Come Chiesa, però, dobbiamo andare avanti senza paura, rifiutando facili formule ed equazioni, come quelle sentite in campagna elettorale, per esempio sul comunismo. Le cose non sono così facili”.
Economia in crisi. Riuscirà Castillo a far fronte alla difficilissima emergenza economica in cui versa il Paese, con un calo del Pil a due cifre a causa dell’emergenza Covid-19?
Secondo l’economista italo-peruviano César Ferrari, docente all’Università Javeriana di Bogotá (Colombia), già presidente del Banco Central del Perù e funzionario del Fondo monetario internazionale in Africa, “il contesto è molto difficile, sia dal punto di vista economico che politico.
Ci si è trovati di fronte a due scelte molto complicate, da una parte la figlia del dittatore ed emblema della corruzione, dall’altra un personaggio che non si sa dove va. In tanti si sono trovati in difficoltà e hanno scelto di non votare.
Ma bisogna anche chiedersi perché si è arrivati a questo punto, e perché tutto il Continente è in ebollizione. A mio avviso, questa è la principale conseguenza delle politiche liberiste dei vari governi di destra. Questo modello del fare profitto a ogni costo è giunto al capolinea, è arrivato al limite delle sue possibilità, lo si vede anche dagli Stati Uniti e dalle prime scelte di Biden. Si assiste a un ritorno di politiche keynesiane, dopo decenni”.
Tuttavia,
“in Perù è arrivata una risposta dettata dalla disperazione, molto viscerale”.
E questo capita nel Paese “con la situazione economica più difficile del Sudamerica”, a parte il Venezuela. Secondo l’economista, “l’unica soluzione per provare a risalire è che ci sia una grande immissione di spesa pubblica, senza la quale non esisterebbe neppure la base per investimenti privati. Del resto, è quello che si sta facendo in tutti i Paesi del mondo”. Una sfida difficile, per Castillo, “se andrà bene potrebbe diventare una specie di nuovo Evo Morales”.
Si vedrà. “Di certo – afferma Wilfredo Ardito Vega, giurista ed esperto di Diritti umani dell’Università Cattolica del Perù – è stata orchestrata una campagna contro il supposto comunismo di Castillo, neanche si trattasse di Stalin. Personalmente, da persona attenta ai diritti umani, mi ha colpito che, soprattutto qui a Lima, ci si sia dimenticati dei tanti crimini della dittatura di Fujimori, si preferisce il proprio benessere”.
Castillo, del resto, è persona che sfugge a rapidi cliché. Di sinistra, ma religioso e molto attaccato alle tradizioni del proprio territorio, contrario all’aborto e all’ideologia Lgbt.
“L’ho conosciuto personalmente, anni fa in Cajamarca, è amico di Pepe Mujica ed Evo Morales, ma non ha il loro carisma, si è costruito lottando contro le miniere d’oro – spiega Cristiano Morsolin, esperto di diritti umani -. Lì non c’è luce, acqua, internet in pieno secolo ventunesimo. Così si afferma la voce ribelle di una sinistra andina, un po’ conservatrice ed etnocentrica, che diventerà di governo, se saprà aprirsi ad altri contributi, contribuendo a rafforzare una democrazia ancora debolissima”.
(*) giornalista de “La voce del Popolo”