Iraq. Nissan (Caritas): “La mano tesa della Chiesa al nostro Paese”

Un Paese in lento miglioramento ma ancora gravato da problemi come "la povertà, gli sfollati interni, l’instabilità politica, la presenza delle milizie paramilitari, il settarismo, la diffusa corruzione e la burocrazia che rallenta ogni cosa". È l'Iraq di oggi nelle parole del direttore di Caritas Iraq, Nabil Nissan. Ancora da sconfiggere è la mentalità fondamentalista lasciata dall'Isis. La speranza nella visita di Papa Francesco, atteso nel 2020

Iraq. Nissan (Caritas): “La mano tesa della Chiesa al nostro Paese”

Si è svolto dal 1 al 3 luglio scorsi, a Baghdad, il meeting annuale dei partner di Caritas Iraq. Ai lavori, coordinati da Caritas Internationalis, erano presenti delegati di diverse Caritas europee (Italia, Belgio, Spagna e Germania) e del Crs (Catholic Relief Services, Usa).

L’incontro è servito per discutere dell’attuale situazione nel paese, delle condizioni dei cristiani e dei programmi di aiuto messi in campo da Caritas Iraq. Alcuni di questi sono stati visionati a Falluja e Ramadi, capoluogo del governatorato di Al Anbar. Qui la delegazione è stata ricevuta dalle Istituzioni locali che hanno manifestato “soddisfazione” per l’operato di Caritas Iraq a favore della popolazione ed espresso l’auspicio che “l’annunciata visita di Papa Francesco in Iraq, prevista nel 2020, possa contribuire alla pacificazione e ad una sempre maggiore stabilità interna”.

A margine dell’incontro nella capitale irachena il Sir ha incontrato Nabil Nissan, da 11 anni direttore Caritas Iraq.

Direttore, qual è l’impegno di Caritas Iraq verso la popolazione irachena e il senso di questa missione?
Caritas Iraq nasce nel 1992 per volontà dei vescovi cattolici del Paese per fare fronte all’emergenza provocata dal rigido embargo economico proclamato dall’Onu nello stesso anno. I nostri valori sono quelli del rispetto della dignità umana, la ricerca del bene comune, l’opzione preferenziale dei poveri, la solidarietà, l’uguaglianza e la giustizia. Gli obiettivi che perseguiamo sono il miglioramento delle condizioni di vita, salvare vite umane e promuovere comunità sociali nuove, lontane da ogni forma di violenza, esclusione e di discriminazione. 

Attualmente siamo presenti in tutto il Paese con 21 strutture da Zakho e Duhok al nord, scendendo nella Piana di Ninive (Alqosh, Qaraqosh e Tel Uskuf), fino a Baghdad, Falluja, Saqlawia. Ogni anno riusciamo ad assistere psicologicamente 2 mila madri traumatizzate dalla guerra e dall’Isis, forniamo assistenza sanitaria a oltre 12 mila persone, diamo aiuto sanitario a 3 mila famiglie, istruzione a 6 mila bambini. Abbiamo restaurato 2 mila abitazioni danneggiate, e donato 380 caravan per emergenza abitativa, distribuito 100 mila pacchi viveri raggiungendo oltre 200 mila beneficiari. Ci sono programmi dedicati agli sfollati interni e che vivono nei campi di Amryat Falluja, Falluja, Baghdad e Anbar. Un lavoro portiamo avanti grazie anche al sostegno di Caritas partner, tra cui quella italiana, e che richiede un impegno sempre maggiore.

Vede qualche miglioramento nella situazione interna dell’Iraq ora che l’Isis è stato sconfitto?
“La situazione sta lentamente migliorando soprattutto dopo l’occupazione di Isis. Si registra un crescente senso di appartenenza alla nazione, di cittadinanza, di convivenza sociale che temevamo di aver perso per sempre. Siamo in un periodo di pacificazione anche se non siamo arrivati ad una pace definitiva. Tuttavia sul tappeto restano ancora molti problemi: la povertà, l’instabilità politica, la presenza delle milizie paramilitari (che hanno combattuto l’Isis, ndr.), la burocrazia che rallenta ogni cosa. I numeri sono impietosi: la disoccupazione è al 22% e riguarda in particolare i giovani, in Iraq ci sono 1,7 milioni di sfollati interni, 3 milioni di disabili, 1,5 milioni di orfani, più di 1 milione di donne divorziate.

A preoccupare sono in particolare la corruzione e il settarismo: se avessi una bacchetta magica (ride) li farei sparire subito.

Sono problemi che l’Iraq si porta dietro da decenni di guerre, aggravati dall’invasione di Isis. Che segni ha lasciato lo Stato islamico sulla pelle degli iracheni?
Sulla pelle e nella mente della popolazione.

L’Isis ha instillato negli iracheni una mentalità fondamentalista tesa ad annientare l’altro. L’Isis non è composto solo da persone ma è anche una ideologia, una mentalità che deve essere estirpata. Per combatterla come Caritas abbiamo anche maturato un cambiamento nella nostra missione: prima dell’Isis eravamo concentrati sugli aspetti materiali della povertà. Con l’avvento di Isis abbiamo cominciato a capire che il problema col quale dovevamo confrontarci era la ricostruzione dell’essere umano. Da qui abbiamo intrapreso programmi di sostegno psicologico e sociale alle categorie più vulnerabili, a partire dai bambini. Questo è uno dei motivi per cui siamo attivi, per esempio, nei campi di sfollati nell’Anbar, a Falluja, dove vivono uomini, donne, ragazzi, bambini e anziani che, vissuti sotto l’Isis, sono stati sottoposti alla loro ideologia.

Poco fa ha citato il settarismo. In che modo pesa sulla vita delle minoranze nel Paese, tra le quali si annovera anche quella cristiana?
Il settarismo è una brace che cova. Viene riattizzata ad arte per motivi politici. In Iraq ci abbiamo sempre convissuto. Spetta alla politica risolvere questo problema.

Anche l’emergenza sfollati interni, sono 1,7 milioni, è un problema politico. Ma come si risolve?
Si tratta di un problema che va trattato nel lungo periodo oltre la fase emergenziale. Molta gente non può fare rientro nelle proprie case perché queste sono state distrutte, perché ha dei contenziosi legali con lo Stato iracheno e soprattutto perché l’economia di intere regioni è stata spazzata via. Stime di Caritas Iraq riferiscono che il 60% del milione e settecentomila di sfollati rimasti non ha la benché minima volontà di tornare perché ha paura.

Nel medio e lungo periodo ci sarà una fetta della popolazione che riceverà comunque aiuti caritativi. La società civile deve premere sulla politica perché dia soluzioni di lungo respiro al problema.

Qual è il ruolo dei cristiani in questa fase di pacificazione?
È quello della Caritas: aiutare, senza fare distinzioni, tutti coloro che sono nel bisogno e in questa maniera testimoniare Gesù Cristo. A spingerci tra gli sfollati di Anbar è stata la nostra fede. La Chiesa in un contesto come il nostro non ha possibilità di annunciare il Vangelo se non attraverso la testimonianza della carità. Così rendiamo visibile il messaggio di Cristo a tanti musulmani. A Falluja abbiamo riportato la Croce. Ora la gente può capire chi siamo e perché siamo lì tra loro a vivere la carità.

Siamo una minoranza ma se viviamo solo tra di noi moriremo soffocati. Aprendoci a tutta la società possiamo respirare anche noi. Siamo chiamati a costruire ponti.

Forse è anche per questo che in Caritas Iraq operano molti giovani volontari di fede musulmana?

Certamente ma va anche detto che in Iraq moltissimi giovani non lavorano. Una delle nostre priorità è la formazione giovanile. E così abbiamo pensato di inserire diversi giovani all’interno delle nostre attività così che respirino lo spirito Caritas.

Papa Francesco ha annunciato l’intenzione di venire in Iraq nel 2020. Che significa per il suo Paese questa visita pastorale?
Questa visita è un messaggio importante per tutto l’Iraq. E il messaggio è: abbiamo bisogno di ponti e di apertura.

Il cristiano è sempre quello che compie il primo passo nella direzione dell’altro. Il Papa viene a ricordare a tutti gli iracheni che il cristiano è colui che tende la mano al prossimo. Lo dice all’Iraq e a tutta la regione. Ai cristiani donerà conforto. Vedere il capo della Chiesa universale che porta l’Iraq nel suo cuore ci dona forza e coraggio per andare avanti nella nostra missione.

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Fonte: Sir